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 2025  gennaio 23 Giovedì calendario

Adrien Brody si prepara agli Oscar

Per interpretare il pianista Władysław Szpilman, sopravvissuto ai campi di sterminio nazista, nel film di Roman Polanski per cui nel 2003, a 29 anni, vinse l’Oscar come miglior attore, Adrien Brody imparò a parlare polacco, a suonare Chopin, arrivò a perdere 13 chili e anche qualcosa di più, essendosi imposto un isolamento quasi totale per entrare meglio nel personaggio. Per il ruolo dell’architetto László Tóthal, protagonista di «The Brutalist» di Brady Corbett (Leone d’argento per la regia a Venezia, in sala dal 6 febbraio con Universal), l’attore newyorkese ha già vinto il Golden Globe e in molti scommettono che farà il bis agli Oscar. 
È stato altrettanto faticoso? 
«Sono passati oltre vent’anni da Il pianista, allora avevo fatto di tutto per comprendere la lotta per la sopravvivenza di Szpilman. Il film mi aveva lasciato sfinito. Gli orrori di quell’epoca ancora mi perseguitano. Questa volta ho pescato dalla mia storia personale, in particolare dalla famiglia di mia madre, mi sono concentrato su quello che lei e i nonni, come László, si sono lasciati alle spalle, fuggendo dall’Ungheria, anche se in epoche diverse». 
Sua nonna ha vissuto nella Budapest occupata dai nazisti. Sua madre, la fotografa Sylvia Plachy, arrivò con i genitori in America dopo le rivolte del 1956. Il protagonista di «The Brutalist» è un ebreo ungherese sopravvissuto ai campi di sterminio che emigra oltreoceano per iniziare una nuova vita e si confronta anche con il lato più oscuro del sogno americano. In cosa le ha ricordato i suoi? 
«Nella tenacia e capacità di resilienza, ma anche di sacrificio, nelle difficoltà e sofferenze intense nel fuggire dall’Ungheria negli anni ‘50 durante la rivoluzione e venire in Usa e ritrovarsi rifugiati. E stranieri. Come capita al protagonista del film che cerca di trovare la sua strada in una nuova terra con un insieme di regole che non conosce. So cosa vuol dire trascorrere una vita cercando di essere assimilati e anche diventare un’artista come mia madre». 
Lei è stato spesso soggetto delle sue foto. 
«Mi ha insegnato a guardare la bellezza del mondo, a provare empatia per il prossimo. Mi ha guidato anche come uomo e come artista nel corso degli anni, trascorsi a vivere una vita all’insegna del desiderio, di costruzione e ricostruzione del mio lavoro dal punto di vista artistico. E semplicemente crescendo come essere umano. Poi, certo, mi è servito conoscere l’ungherese, mi sono goduto l’idea di girare a Budapest, è stato importante. E ho studiato a fondo l’opera degli architetti brutalisti a cui il personaggio è ispirato. Ma soprattutto ho pensato alla complessità di questo essere umano». 
Il regista Corbet, anche lui premiato ai Golden Globes, ha detto che nessuno credeva in un film di 3 ore e mezza su un designer di metà Novecento, girato in 70mm. Lei non ha avuto dubbi, cosa l’ha convinta? 
«Proprio la sua complessità. E mi commuove l’idea che stia ricevendo così tanti premi e elogi, anche se per anni hanno detto a Corbet che era matto. Essere capiti è già un premio in sé». 
Il suo è un percorso eccentrico, iniziato con un imprinting importante: Francis Ford Coppola. Cosa ricorda? 
«Avevo 12 anni, mia madre mi aveva iscritto a un corso di recitazione. Al provino mi accompagnò mio padre, che mi ha sempre supportato. Era un piccolo ruolo per l’episodio diretto da Coppola per New York Stories, “La vita senza Zoe”. C’era una fila lunghissima di aspiranti, presero me. È stata una fortuna». 
Ha proseguito con cose molto diverse: i film di Wes Anderson, è stato Dalì per Woody Allen, ha girato «King Kong» di Peter Jackson, ma anche serie tv come «Succession» e «Peaky Blinders». 
«Ho sempre dato spazio alla sperimentazione. Ho preso dei rischi, ma mi trovo a mio agio in cose diverse, dai set di Wes alla serialità. E, fondamentale, non rinuncio al teatro. Sono appena stato settimane in scena a Londra con Fear of 13». 
Si sente un outsider a Hollywood? 
«No. Mi sento amato e rispettato, in questi ultimi mesi sto ricevendo tantissimo, non lo dico solo per i premi. Ho un percorso unico, questo è vero. È la natura di questo lavoro, devi trovare appagamento, mantenere viva la passione. Questa è la responsabilità. Poi ci sono alcune cose che sono fuori dal tuo controllo. Ma amo lo scambio. Sono grato a Brady Corbet di avermi scelto, credo che il film arrivi a tutti, nonostante la complessità. È piuttosto giovane, vitale, curioso, appassionato. Sa coinvolgere tutti nella sua visione. Questo per me fa la differenza, è la cosa che continuo a cercare nel mio lavoro». 
Lei dipinge. Cosa cerca nella pittura? 

«Mi dà autonomia. Quello sì, dipende solo da me».