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 2025  gennaio 23 Giovedì calendario

Biografia di Gian Marco Moratti, raccontata dal figlio Angelo

«Se sei conosciuto e hai successo ti fanno fuori. Ho cercato di far parlare di me il meno possibile. E ho vissuto bene». Angelo, riconosce, in queste parole, il carattere e lo stile di suo padre Gian Marco?
«Sì, assolutamente. Lui era il figlio maggiore di mio nonno e ha vissuto il periodo in cui suo padre ha faticato a imporsi nel mondo degli affari con Saras e in quello dello sport con l’Inter – racconta Angelo Moratti, 61 anni —. Aveva capito quanto fosse duro avere successo in questo Paese».
Il primo ricordo che ha di lui?
«Avrò avuto circa quattro anni e giocavamo a calcio nel corridoio di casa. Quelle sfide erano leggendarie e sono durate fino a quando, a undici anni, sono andato in collegio».
Negli anni ’70 provarono a sequestrarla. Suo padre cosa fece?
«Una mattina esco da scuola e quattro malviventi mi rapiscono, però la polizia interviene e riesce a liberarmi subito. Mio padre decise che noi figli ci saremmo trasferiti all’estero. Abbiamo vissuto per un anno vicino a Lugano e poi nel collegio in Svizzera dove era stato anche lui. Due anni dopo ha capito che quel collegio non era abbastanza severo per potermi formare come futuro uomo, così mi ha mandato in Inghilterra in un collegio militare. Dormivamo in cinquanta in una stanza».
Si laureò a Catania, come ci era finito in Sicilia?
«Era un uomo che tendeva ad autodisciplinarsi. A un certo punto ha preso atto che per laurearsi doveva evitare le distrazioni, così insieme a Umberto Agnelli andarono a Catania».
A che età cominciò a lavorare?
«Molto giovane, mentre faceva l’università già seguiva mio nonno in azienda. Proprio per questo, dopo che ho finito la scuola e gli ho chiesto di fare l’Università negli Stati Uniti, la risposta è stata: “Assolutamente no, tu cominci a lavorare subito e, testuale (sorride, ndr), preparerai gli esami durante le tue vacanze a San Patrignano».
Perché ce l’aveva con l’America?
«Mio nonno Angelo diceva che dall’America arrivavano le cose migliori, ma anche le peggiori. Così con mio padre le discussioni riguardavano puntualmente gli Stati Uniti. Paese a cui rimproverava le componenti legate alla violenza, all’estrema attenzione per i soldi e alla superficialità. Dopo decenni mi sento di dargli ragione. E lui stesso, nel 2016, dopo l’elezione di Trump, constatò come lo scenario fosse poco rassicurante».
Amava il suo lavoro?
«Al di fuori della famiglia e di San Patrignano il suo lavoro era tutto».
Commentava la svolta green della società occidentale?
«Saras per volontà di mio padre ha costruito il grande parco eolico di Ulassai in Sardegna. Detto questo mi prendeva in giro, dicendo che i miei “amici americani” facevano film e, in generale, attaccavano sempre i petrolieri, trascurando che il petrolio resta una fonte energetica tra le più accessibili, economiche e semplici da trasportare. Reputava il petrolio ancora essenziale per lo sviluppo dell’economia mondiale».
Come aveva conosciuto Vincenzo Muccioli?
«Premessa: mio padre ha passato i primi quaranta anni della sua vita nella consapevolezza di avere ricevuto tantissimo, dopo ha maturato il convincimento che doveva restituire quanto avuto. L’incontro è fortuito. Mio padre era cintura nera di karate e con il suo maestro, oltre ad allenarsi, praticava meditazione zen. Un giorno il cugino del suo maestro gli racconta che sta andando a vivere in una comunità per il recupero dei tossicodipendenti: mio padre conosce Muccioli che, all’epoca era il 1979, praticava a San Patrignano le prime cure ai ragazzi per farli uscire dalla dipendenza della droga. Da subito, insieme a Letizia si appassionano al progetto».
Trascorreva ogni fine settimana a San Patrignano.
«Dal 1980 in poi mio padre ha passato tutte le vacanze, a parte qualche giorno al mare all’Elba, e tutti i weekend a San Patrignano. Io andavo quasi sempre, ed è lì, con i ragazzi della comunità, che ho studiato i miei esami universitari. Per dieci anni mio padre ha dormito in una roulotte, poi si è spostato in un piccolo appartamento, all’interno c’erano dei semplici lettini di ferro».
Perché così spartano?
«Questo suo lato marziale e di autodisciplina lo faceva gioire. Non faceva mistero che i giorni a San Patrignano erano stati per lui i più belli».
Dopo l’arresto di Muccioli, nel 1980, si trasferì in comunità senza mai muoversi.
«Eravamo a Milano a casa di mio nonno che festeggiava un premio appena ricevuto. Quella sera arriva la notizia dell’arresto, mio padre e Letizia partono per San Patrignano e decidono di non muoversi da lì fino al rilascio di Muccioli. In quel momento non avevano idea di quanto sarebbe durata la detenzione per le accuse di violenza. Non si mosse per 35 giorni, ma ci sarebbe potuto restare per anni. In quel periodo la notte usciva a recuperare i ragazzi che scappavano dalla comunità».
Ha mai messo in discussione i metodi di Muccioli?
«No, mai».
È sepolto a San Patrignano, aveva chiesto così?
«Era un suo desiderio».
In famiglia parlava della comunità, trasferendo il senso di quello che faceva lì?
«Noi eravamo parte integrante di quella sua avventura. Se desideravi avere un bellissimo rapporto con lui non potevi non fare parte di quella sua scelta».
È stato un uomo molto ricco, che rapporto aveva con il denaro?
«Un rapporto di grande disciplina, non si viziava. La disciplina era indirizzata in un’unica direzione: larga parte dei soldi che guadagnava dovevano essere utilizzati per salvare qualcuno. Era quasi un’ossessione».
Con voi figli era generoso?
«Molto, però il rigore che applicava a se stesso lo pretendeva anche da noi».
Famiglia Moratti e l’Inter. Quanto era tifoso?
«In misura enorme. Aveva seguito mio nonno durante gli anni della sua presidenza e dopo la vendita dell’Inter nel 1968 si era convinto che quell’avventura dovesse chiudersi lì. Quando mio zio Massimo ha ricomprato la società per un po’ ha fatto resistenza, poi gli è riesplosa la passione. Però è tornato allo stadio una sola volta, guardava le partite da casa».
Il suo giocatore preferito?
«All’epoca di mio nonno l’eroe di casa era Mario Corso, perché era un po’ genio e sregolatezza. In tempi più recenti ha amato Mourinho».
Ne capiva di calcio?
«Tantissimo ed era consapevole dei propri limiti. Ogni tanto diceva: “Non vi mettete a fare gli allenatori...”».
Rivalità calcistiche?
«La Juventus».
Era sportivo?
«Lo era, faceva parte del suo essere molto competitivo. Da ragazzo aveva giocato a calcio e a tennis, andava a caccia e praticava karate. A vela ha vinto la Giraglia».
Chi votava?
«Ha sempre votato al centro, repubblicani, liberali. Non amava gli estremi».
Era amico di Berlusconi?
«Sì certo, lo conosceva fin da giovane, ma non era della stretta cerchia degli amici di Berlusconi».
Lo ha mai votato?
«Sì».
Mai tentato dalla politica?
«No. Ma era capace di interagire con i politici e loro si fidavano di lui. Ha fatto benissimo il presidente dell’Unione Petrolifera negli anni 90, tanto da correre per la presidenza di Confindustria. All’epoca a decidere era Cesare Romiti che lo ostacolò. Ricordo che gli chiesi il senso di combattere una guerra già probabilmente perduta. Mi rispose che Confindustria meritava maggiore autonomia rispetto a un’unica grande azienda come Fiat, e che anche perdendo avrebbe contribuito a questa evoluzione. La storia ha dimostrato che era così».
I suoi amici del cuore?
«A ogni evento di famiglia c’erano i suoi amici di infanzia, quelli con cui aveva organizzato i tornei di calcio da ragazzo. Alcuni sono diventati parte integrante della famiglia, come Pippo Giuliani, che si è sposato con sua sorella Bedy. A differenza di tanti uomini di successo non ha avuto la fase degli amici importanti».
Un difetto?
«Vedeva solo bianco o nero, non aveva sfumature».
Credeva in Dio?
«Era più spirituale che religioso, aveva studiato buddhismo e taoismo, maturando l’idea che ci fosse la reincarnazione».
Un luogo del cuore?
«Viareggio da giovane e, poi, San Patrignano».
Cosa lo rendeva un tipico milanese?
«Lo era in tutto. Da ragazzo è stato grande amico di Pozzetto e Jannacci che lo venivano a prendere per andare fare casino in giro per la città. Ogni tanto si divertiva a tirare fuori frasi o modi di dire milanesi. Adorava Celentano».
Come affrontò la malattia?
«Nel timore di non avere fatto abbastanza per lasciare a noi famiglia un mondo sicuro. Era costantemente preoccupato, voleva lasciare tutto in ordine e finiva per non curarsi di sé stesso. Era un uomo che non vedeva la fine e che non si è mai arreso».