Corriere della Sera, 23 gennaio 2025
Parla Elio Vincenzi, che perse la moglie nel naufragio della Costa Concordia
Dice tutto d’un fiato: «Come mi sento? Mi sento impotente perché non posso fare nulla. Perché per la legge lui può uscire mentre per noi vittime non c’è fine pena».
Perché per il priolese Elio Vincenzi, professore di matematica in pensione, c’è un prima e c’è un dopo. Uno spartiacque temporale segnato da una data ben precisa: 13 gennaio 2012, Costa Concordia, Isola del Giglio. Tra i 32 morti di quel disastro – passeggeri e membri dell’equipaggio – c’era Maria Grazia Trecarichi, sua moglie, che fu trovata un anno dopo tra i dispersi. «Posso solo vederla nei sogni: mi sorride», dice Vincenzi.
L’ex comandante Francesco Schettino – condannato nel 2017 a 16 anni di reclusione per omicidio colposo plurimo, lesioni colpose, naufragio colposo e abbandono dell’imbarcazione – ha avanzato richiesta di semilibertà. La decisione spetta al Tribunale di Sorveglianza di Roma, che si pronuncerà il prossimo 4 marzo. Lei come vive tutto questo?
«Io me lo aspettavo. Dal momento in cui – a partire – dal 2020, Schettino ha lavorato alla digitalizzazione di documenti giudiziari relativi alla strage di Ustica e al sequestro di Aldo Moro, ho capito che si sarebbe probabilmente andati in quella direzione. Sono arrabbiato. Ma so anche che in Italia la legge è quello che è: la mia non è una polemica con la magistratura. Ma c’è un meccanismo che fa parte della giustizia che non mi piace».
Qual è?
«Pensi a che cosa è successo a Beniamino Zuccheddu, il pastore sardo che ha trascorso in carcere 33 anni della sua vita da innocente. O rivolga questa sua domanda ai parenti di Enzo Tortora. Sa cosa mi fa male?».
No, mi dica.
«Pensare che Schettino – per legge – possa uscire e farsi la sua vita. E io? La mia esistenza è stata sconvolta. A me sembra – alla fine dei giochi – che la condanna la paghino sempre le vittime. Perché se ci pensa neppure gli altri hanno pagato».
Non è proprio così. La Procura di Grosseto ha chiesto e ottenuto le condanne – poi confermate dalla Cassazione – ai cinque co-indagati di Schettino per il disastro: Ciro Ambrosio, Silvia Coronica, Jacob Rusli Bin, il manager di Costa spa Roberto Ferrarini e il direttore dell’hotel di bordo Manrico Giampedroni.
«Lei ha ragione. Ma ora gliela faccio io una domanda: come si sentirebbe se avesse perso un parente o un suo affetto mentre era su una nave? La sa una cosa? Mia moglie è stata ammalata di cancro: lo scoprimmo nel 2001. Nove anni di calvario: i medici dissero che non c’era alcuna speranza. Fu salvata dalla cura Di Bella. È sopravvissuta a quella malattia ma non alla Concordia. Io non ero andato in crociera perché all’epoca insegnavo. Dissi a mia moglie di andare con nostra figlia, che poi si è salvata. I cinquant’anni di matrimonio li avremmo festeggiati al suo ritorno: da allora non mi do pace, se fossi stato sulla Concordia sono sicuro che l’avrei salvata. Io non permetterò che nessuno dimentichi quello che è successo. In queste settimane sto facendo una cosa ben precisa».
Vale a dire?
«Sto raccogliendo testimonianze. Vorrei che sul punto esatto dove è avvenuto l’impatto fosse apposta una stele o vedere un cippo. A oggi c’è ancora una targhetta da due soldi a ricordare quella tragedia. E mi è parso di capire che nell’ultima commemorazione si vada perdendo un po’ troppo la memoria. E questa cosa non va bene. Per nulla».
Che cosa direbbe a Francesco Schettino?
«Gli vorrei fare alcune domande: come ha fatto un comandante di nave ad abbandonare le vittime e la nave? Come ha fatto ad andare in cabina per cambiarsi per poi salire su una scialuppa? Come ha fatto a chiedere una cima per rimettere in pari una nave lunga quanto due campi di calcio? E soprattutto vorrei chiedergli che fine ha fatto il suo pc».
È l’unico oggetto che i carabinieri – pur cercandolo ovunque – non hanno mai trovato.
«Appunto. Che cosa c’era lì dentro? È quello che vorrei sapere. Ma per quanto mi riguarda Schettino è un bugiardo e non credo a nulla di tutto quello che potrebbe dirmi».