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 2025  gennaio 22 Mercoledì calendario

Cent’anni di Ossi di seppia

Le prime recensioni non furono entusiasmanti: Natalino Sapegno evidenziò un’«intorbida ambizione»; secondo Giuseppe Prezzolini, «non era proprio la rivelazione annunziata». I critici del Regno di Torino saranno ancora più spietati: «Montale studi e si raccolga». Un secolo fa, nel giugno 1925 uscirono per Gobetti – con l’intermediazione di Sergio Solmi – gli Ossi di seppia, la prima silloge di Eugenio Montale. Il padre del poeta, Domenico detto “Domingo”, si rifiutò di comprare il libro perché trovava alto il prezzo di copertina: sei lire.
Aneddoti a parte, Ossi di seppia incontrerà un successo crescente e avrà una fondamentale seconda edizione, pubblicata nel ’28 per i tipi di Ribet con l’aggiunta di sei liriche (tra cui Delta, Incontro e Arsenio), mentre nel ’42 arriverà la stampa Einaudi e nel ’48 toccherà a Mondadori. Ossi di seppia non è la raccolta montaliana più importante, ma certamente la più fortunata. Il suo precoce passaggio scolastico ha, però, finito per ridurre la complessità antinomica del testo a pochi nuclei tematici: l’antifrasi dannunziana e la ricerca di un linguaggio «scabro ed essenziale» segnato dall’objective correlative (si pensi a “I limoni” e a “Non chiederci la parola”); la percezione del «male di vivere», l’impossibilità epistemologica (“Meriggiare pallido e assorto”) e il sentimento di Verfallenheit (deiezione, scarto); il tempo che sgretola ogni cosa (“Cigola la carrucola del pozzo”) e la tensione panica alla pienezza marina. Ne viene fuori un pessimismo di fondo, non lontano da quello affibbiato a Leopardi. Proviamo a portare alla luce alcuni elementi di senso nascosti nella ricchissima compagine degli Ossi. Innanzitutto, la silloge – suddivisa in quattro sezioni, “Movimenti”, “Ossi di seppia”, “Mediterraneo”, “Meriggi e Ombre”, precedute da “In limine” e chiuse da “Riviere” (la parola finale è «rifiorire») – si configura come un vero e proprio romanzo con tanto di unità d’azione e di personaggi: la prima è il paesaggio ligure da Genova alle Cinque Terre (a Monterosso i Montale avevano una villa in cui trascorrevano le vacanze estive); i secondi sono nominati o “sommersi”: Arsenio, alter-ego dell’autore, con la sua «vita strozzata»; Crisalide alias Paola Nicoli, la farfalla che deve ancora sbocciare; Esterina Rossi, il prodigio (“Falsetto”).
Lo spazio fisico e psicologico in cui si muovono questi personaggi è retto dai fili invisibili di una presenza silenziosa, colta nella sua disponibilità di ascolto e attenzione spirituale: Arletta, mai nominata, ma «sommersa» appunto nelle precedenti stesure (in “Incontro” al verso 46 la prima mano vergava «Oh Arletta!» invece di «Oh sommersa!»). È Anna degli Uberti, la prima vera ispiratrice montaliana, che accompagnerà fedelmente Eugenio da “In limine” sino all’ultima poesia dell’Opera in versi (1980), “Ah!”. Arletta – mito di Dafne e simbolo ctonio – è insieme identità, assenza e compartecipazione alla «totale disarmonia con la realtà»: condivide con il poeta l’estraneità, il cuore «scordato strumento». Arsenio e Arletta, personaggi musicali, balenanti, à la Debussy, sanno che il mondo è retto dalle catene della necessità, ma sanno anche che esiste «l’anello che non tiene», «uno sbaglio di Natura»: il miracolo, la possibilità che non tutto sia predeterminato. È l’adesione ai contingentisti francesi (con in testa Émile Boutroux e il Bergson dei antômes de vivants) e a qualche frangia del pensiero schopenhaueriano (il velo di Maya, la volontà e la rappresentazione). I fuochi di questa religiosità laica – che cerca la prodezza di un «varco» e adduce «nel mezzo di una verità» – provengono da lontano e se ne trovano chiare tracce nel Quaderno genovese, scritto nel 1917, ispirato da Marianna, sorella del poeta, e dal cattolicesimo modernista che si era diffuso nel capoluogo ligure (in particolare attraverso padre Giuseppe Trinchero). Essere ossi di seppia vuol dire sì possedere una particolare attitudine alla sofferenza («Tu non m’abbandonare mia tristezza») e alla separazione dal consorzio umano, ma è anche sinonimo di bianchezza, claritas, capacità di penetrare il «segreto» delle cose: Arsenio e Arletta sono tra coloro che si voltano «in un’aria di vetro» (“Forse un mattino andando”), che guardano alle «trombe d’oro della solarità». Un altro nucleo non rilevato è il sacrificio d’amore: come confessò lo stesso Montale, «l’ipotesi della Grazia (…) era già nella “Casa sul mare” e in “Crisalide” (…). Volevo stringere un patto col destino, per scontare l’altrui gioia con la mia condanna». I versi finali di “In limine” vanno in questa direzione: «Cerca una maglia rotta nella rete / che ci stringe, tu balza fuori, fuggi! / Va, per te l’ho pregato, – ora la sete / mi sarà lieve, meno acre la ruggine...». Ancora la doppiezza semantica dell’osso: la vita ricercata in «bionde trasparenze», forse nel chiarore stesso della grazia: «Portami il girasole impazzito di luce».