la Repubblica, 22 gennaio 2025
Alla Candy di Brugherio, fondata da Eden Fumagalli
Brugherio – Era un mondo felice, e lo dice Samantha che ha 47 anni e il mutuo da pagare, ed è un’operaia orgogliosa del suo lavoro (al proposito, si potrebbe ascoltare lo slogan “Grazie Candy!”, pubblicità del 1961). «Ci hanno sempre trattato bene, sia i vecchi padroni che i padroni cinesi. Ma adesso…» la piccola sicurezza di Samantha e di altri 1.100 dipendenti entra nella centrifuga dell’incertezza – giacché stiamo parlando di lavatrici, è centrifuga impazzita – e quanti si salveranno dalla prossima chiusura, non si sa.La Candy conclude la produzione, il 30 giugno l’ultima lavatrice uscirà dall’unica linea rimasta attiva. Poi, qualcuno spegnerà la luce nella fabbrica di Brugherio, quella che si vede benissimo dalla A4, l’enorme insegna Candy che è vera memoria dell’industria italiana, e che alla sua fondazione venne addirittura benedetta dal cardinale di Milano, Giovanni Battista Montini, poi Papa. Ma qui non ci sono benedizioni che tengano. La crisi del “bianco” sembra imporre la chiusura progressiva di tutti gli stabilimenti che in Europa producono elettrodomestici. Pietro Occhiuto, segretario della Fiom Cgil di Monza e Brianza, spiega che «le multinazionali hanno ormai comprato tutto, in Italia. Ma la produzione si concentra sempre più in Turchia e in Cina. La stessa Haier, che possiede la Candy, ha appena annunciato la chiusura dello stabilimento avviato in Romania tre anni fa».I cinesi, appunto. Hanno comprato Candy nel 2018 dalla famiglia Fumagalli, e da lì in avanti i dipendenti hanno sentito qualcosa scricchiolare, e anche precipitare. «Il primo piano di rilancio, cioè arrivare alla produzione di 500 mila pezzi. Mai realizzato. Poi è arrivato il Covid», dice Samantha, operaia al montaggio, e aggiunge la collega Romina che «noi siamo sempre venuti a lavorare, mentre le altre fabbriche chiudevano, qui intorno». «La Rsu ha imposto la chiusura, poi lo stabilimento è stato messo in sicurezza e dopo 3 settimane abbiamo ripreso la lavorazione», ricorda Raimondo Riggio, delegato di fabbrica della Fiom.Intanto – ore 16 – a cancelli aperti gli operai corrono a prendere i figli a scuola, pensando a quale futuro, davvero quale futuro aspetta leloro famiglie. «Riconvertire? La fabbrica si è già svuotata. Fino a pochi mesi fa c’erano quattro linee di produzione, che poi sono diventate tre, e due, infine una. È stata un’evoluzione veloce. E noi, sempre sul pezzo...», come si dice ancora nelle fabbriche del Nord. È stato tutto inutile. «Ora, ci devono garantire. Hanno promesso un piano per laprossima settimana. Ma, di 176 addetti alla produzione, almeno a cento famiglie va garantito il posto di lavoro». Intanto, dall’uscita “impiegati” esce un giovane – avrà 25 anni ed è stagista – che nulla sa della prossima chiusura della produzione. «E io, che speravo nell’assunzione?». Molti auguri, ma fa pena la sua speranza di avere un posto di lavoro stabile, in una Brianza così in crisi, in un’Italia del Nord così in crisi, che così non lo era mai stata. I Fumagalli? Un lontano ricordo. Gli anni del boom, e ancora prima l’intuizione intelligente di un figlio di Eden Fumagalli (e che nomi, c’erano una volta). Dunque, Enzo Fumagalli, reduce dalla prigionia negli Stati Uniti, come tanti all’epoca dopo la fine della seconda guerra mondiale, ha quella idea che ha visto in America. La lavabiancheria, un aggeggio che (si capirà), avrebbe liberato migliaia di donne dalla schiavitù del bucato.Lo dice al padre Eden, che ha una fabbrichetta Omef (Officine Meccaniche Eden Fumagalli), che raccoglie felicemente l’input e comincia a produrre certe macchine a cilindro, con la strizzapanni a parte (non esisteva la centrifuga, non ancora), e quello è stato l’inizio. Alla Fiera di Milano del 1946, compare la Modello 50, «disegnata per i bisogni di tutta la famiglia». Un successo, alle donne non sembrava vero di poter azionare la macchina, assieme alla scatola di cartone del Tide, e lavare lenzuola e tovaglie, senza più rompersi la schiena nella vasca da bagno (chi ce l’aveva). Era l’Italia dei Sessanta, pieno boom economico, e Caroselli che facevano così: «Or che bravo sono stato/ posso fare anche il bucato?» (lo cantava un certo automa Tic, qualcuno ormai anziano lo ricorderà). Da lì in avanti, la dinastia Fumagalli ha sì preso in mano la fabbrica, e allargato gli orizzonti fino a comprarsi la Hoover e diventare internazionale, per poi lasciare andare il tutto ai cinesi. Perciò ieri, all’uscita dalla fabbrica di Brugherio, Samantha e le altre spiegavano che «ci hanno sempre trattati bene, noi operai. Lo stipendio regolare, le pause giuste. La mensa, poi, tutto a posto. Abbiamo avuto tanto, rispetto alle altre fabbriche del settore, e abbiamo dato anche tanto. Ma, finire così, dopo 70 anni?», e lo dice con semplicità, girando appena la testa verso i vecchi capannoni. Nessuno ricorda più il cumènda Fumagalli, e nemmeno i suoi eredi, ma «i cinesi che pure vengono a controllare ancora la produzione». Beh, così è finito il sogno della manifattura italiana, gli operai di oggi dicono che «come noi non c’è nessuno, perché il Made in Italy noi lo sappiamo fare. Noi», non altri. Ancora riparano i pezzi che arrivano a Brugherio come “da revisionare”, ma «roba di scarsa qualità, di scarsa materia prima. Tutto fabbricato altrove…», nonostante le promesse di un nuovo piano industriale, e il dubbio sul futuro del marchio, è una storia che finisce qui.