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 2025  gennaio 21 Martedì calendario

La Milano che “ruscava” seppellita dal cemento

Ha suscitato preoccupazione a Milano l’iniziativa di una fondazione islamica, La Misericordia, di costruire una nuova moschea a Milano in zona San Siro. Lo si ricava da un articolo de il Giornale (14.01). La preoccupazione per una volta non è tanto ideologica (in fondo a Milano gli islamici sono 200 mila e bisogna pur tenerne conto). La vera preoccupazione, come ha osservato il consigliere comunale di Forza Italia De Chirico, è che intorno alla moschea nascano altri edifici di tipo speculativo che nulla hanno a che fare con la religione, bensì col business e che peggiorerebbero, dal punto di vista ambientale ed economico, un quartiere “già sotto pressione per il degrado, l’alto numero di alloggi occupati”.
A De Chirico sfugge, forse, che quella che per ora è una sua supposizione, a San Siro, intorno allo stadio Meazza, è già da tempo una realtà. Il progetto delle due società calcistiche che operano a Milano, di proprietà straniera, americana, oltre a quello di abbattere il Meazza che a Milano è un’istituzione, più del Duomo, perché su quegli spalti si sono sedute generazioni di milanesi, è di costruirvi attorno il solito ambaradan di supermarket, hotel di lusso, centri commerciali e la cosa gli riuscirà facilmente perché l’ippica in Italia è in crisi (in Francia un po’ meno) e quindi prendere possesso di quei terreni sarà un gioco da ragazzi. Gianni Barbacetto, sul Fatto, ha dedicato decine di articoli sulle conseguenze della sciagurata operazione che gira intorno allo “stadio Meazza” che fino a non poco tempo fa si chiamava ancora “San Siro”.
La preoccupazione, non di De Chirico, ma di noi milanesi, è di disgregare socialmente ed economicamente una vasta e importante area del capoluogo lombardo. Ma questo problema è nato molto prima che arrivassero gli speculatori americani o islamici. Nasce col boom economico dei primi anni Sessanta quando si trattò di assorbire l’immigrazione prima dal Veneto e soprattutto dal Sud. L’immigrazione dal Sud non pose problemi. La polemica fra noi “polentoni” e loro “terroni” si riduceva a uno sfottò bonario (diversa era la situazione a Torino non solo per i famigerati letti caldi, ma per la freddezza tipica dei torinesi che ha anche qualcosa a che vedere col direttore di questo giornale). In fondo era gente che veniva qui con una gran voglia, oltreché necessità, di lavorare e i milanesi, imprenditori o lavoratori, hanno avuto sempre un grande rispetto nei confronti di chi lavoratore o imprenditore “rusca”. Mi ricordo di aver avuto un buon rapporto con Fioravante Stell che era stato sindacalista alla Borletti e per un breve periodo segretario della Cigl. Socialista, aveva combattuto tutte la battaglie sindacali in Borletti non scontando nulla ai padroni, ma parlava con grande rispetto dei Borletti perché “ruscavano”. Erano i primi a entrare in azienda e gli ultimi a uscirne e questo mi riporta a un altro episodio che riguarda i Rizzoli. Un venerdì di primo pomeriggio Angelo Rizzoli junior si presenta nell’ufficio di Angelo Rizzoli senior, il fondatore di quell’azienda editoriale e gli dice: «Cumenda – lo chiamavano così anche in famiglia – è venerdì e fra poco ci sarà il solito arrembaggio dei milanesi verso i laghi, io vorrei evitare le code e uscire adesso». Risposta del Cumenda: «Se tu pensi di poter uscire due ore prima degli altri, puoi anche non ripresentarti lunedì». Questo era il clima in cui venivano educati i giovani rampolli della borghesia imprenditoriale.
Quqando facevo l’università, siamo quindi verso la fine degli anni Sessanta, abitavo in un edificio alla fine di via Novara, periferia ovest di Milano. C’erano ancora gli «orti di guerra» perché la città era ancora integrata alla campagna. Anche parecchi anni dopo quando vivevo in una zona più centrale veniva un contadino che mia madre chiamava «l’uomo delle uova» perché ci portava appunto i frutti della campagna circostante. Oggi si fa una grande questione sugli involucri dei cibi che sono diventati più importanti del contenuto. Per motivi ecologici e di salute oggi l’involucro non deve essere di plastica, deve essere bio, eccetera. Poiché mio padre era direttore di un giornale, da noi la carta abbondava e quindi avevamo stabilito un patto col fruttivendolo o col salumiere. Noi gli davamo la carta che avevamo in abbondanza e lui ci faceva un piccolo sconto. Insomma eravamo molto più poveri, siamo nel primo dopoguerra, ma più solidali.
Quando abitavo in via Novara andavo a studiare all’ippodromo del galoppo detto «alla Maura». Mi piaceva, mentre studiavo, ascoltare il galoppo dei cavalli e le frustate dei fantini. Al ritorno da un’estate a un certo punto alzai gli occhi e vidi che al di là della pista, quella che verrà fra poco smantellata e adibita ad altri usi, c’erano, costruiti in soli due mesi, dei grattacieli. Era nato il Gallaratese, senza un cinema, senza un luogo di ritrovo, senza una piazza e forse senza nemmeno un bar. Poi venne il Gratosoglio che era anche peggio. Il prestigioso studio Peressutti, Belgioioso, Rogers (Pbr) aveva pensato bene di costruire alla base di enormi grattacieli alti dodici piani perfetti dal punto di vista estetico, perché non avevano nemmeno balconi che aggettavano in fuori, dei piccoli locali dignitosi che dovevano essere adibiti a negozi o a luogo di ritrovo per i ragazzi. Peccato che divennero quasi subito dei centri di spaccio e di uso di droga.
Era il periodo in cui il direttore del Giorno, Guglielmo Zucconi, mi aveva affidato il compito di andare nei quartieri di Milano come se fossi non a Milano ma a Hong Kong. Tra i nuovi quartieri esplorai Milano Due edificato da Berlusconi. Ebbene di quei luoghi pur disastrati era il peggiore. Era il quartiere della nuova borghesia milanese che non potendosi più permettere, neanch’essa, un appartamento in città, troppo caro, si sfogava in un quartiere di mezzo lusso totalmente privo di vita. Il mito a Milano Due era il famigerato “verde” che i ragazzi non potevano neanche toccare. Era un quartiere disumano dove i ragazzi, e non solo loro, crescevano molto distanti dalla realtà. C’era in realtà un locale, “Lo Sporting” (o “Scorpion”?), che però per i prezzi era inabbordabile anche per quelli. Mi ricordo che il direttore dello Sporting, Gino Spada, una brava persona, quando morì Papa Luciani si precipitò nelle salette dove stavano giocando a bridge e diede la notizia. Si sentì rispondere: «Due picche!».
Mi ricordo che uscendo da Milano Due incrociai un ragazzino con regolare racchettina in mano. Gli chiesi: «Ti piace vivere qui?» «Sì, sì» rispose con fare smorto, «c’è tanto verde» ripeteva talmudicamente la giustificazione dei suoi genitori per essere andati ad abitare in quel luogo cimiteriale.
Una volta entrai in quella che sulle prime mi sembrò una gelateria, sedie di plexiglass e nemmeno un confessionale. Era la chiesa di Milano Due. Del resto a Milano Due non si facevano nemmeno i funerali. Sarebbe stato disdicevole far vedere che in quel luogo, fra il verde e i campi da tennis, anche la gente moriva. I funerali li facevano nella vicina e proletaria Segrate. Del resto nemmeno il prete aveva l’aspetto di un prete, ma piuttosto di un manager. Non mi parlò di religione o almeno di spiritualità, ma solo di conti.
È molto difficile trovare a Milano Due, ma in realtà in tutta Milano cui questo quartiere dà il tono a tutto il Paese, l’antica Milano col «coeur in man». Anzi è impossibile trovare nella Milano di oggi un pizzico dell’antica umanità. Insomma è impossibile ritrovare Milano nonostante le statistiche, queste odierne Divinità, la diano come la città in cui si vive meglio in Italia.