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 2025  gennaio 21 Martedì calendario

Il lavoro svilito, origine della moderna barbarie

Lo scenario di barbarie che le guerre in corso ci squadernano ormai da tempo, induce al pensiero sommario di assegnare la responsabilità di tutto alla belva sanguinaria che è in ognuno di noi. Continuiamo a risolvere le divergenze fra individui e popoli facendoci guerra come ai primordi della storia umana. Eppure, come non chiederci: sarebbe stato possibile lo spettacolo di oggi 50 anni fa? Il silenzio con cui le popolazioni europee assistono da oltre un anno attraverso le loro domestiche Tv, al massacro quotidiano del popolo palestinese?
In realtà lo stato di regressione civile delle società umane è largamente visibile da tempo, precede le guerre in corso e le prescinde. Esso non costituisce solo un dato antropologico per così dire primigenio, ma è anche un portato poco osservato della modernità. In fondo è la vita umana che ha perso valore agli occhi stessi degli uomini. Negli ultimi decenni il nichilismo è diventato popolare. La “morte di Dio”, con tutto il seguito di perdita di fondamenti e di sacralità della vita, è sceso dai cieli della filosofia e cammina per le le strade del mondo. Ma negli ultimi decenni è avanzato un altro sotterraneo processo di svalutazione della vita che proviene dai sommovimenti sociali. È la gigantesca perdita di valore che ha subito il lavoro. Non dimentichiamo che l’età contemporanea, l’epoca che inaugura la società capitalistico-industriale, scopre per la prima volta il lavoro quale fonte originaria della ricchezza.
Adam Smith, fondatore del pensiero economico moderno, l’aveva riconosciuto nella sua Inquiry sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni. Marx, com’è noto, fa del lavoro sfruttato e alienato, la classe operaia, l’avanguardia di umanità messianica destinata a cambiare il mondo e a farlo approdare a un nuovo assetto di civiltà. Tutto il pensiero socialista in età contemporanea assegna alla classe lavoratrice il compito di rivoluzionare la società.
Dagli anni 80 del Novecento lo sviluppo del capitalismo deregolato, insieme a vari processi della storia mondiale, ha mandato in frantumi la vecchia configurazione classista del lavoro operaio, sterilizzato tutti gli elementi culturali, simbolici, spirituali che l’avevano accompagnato. Ma, come oggi appare chiaro, è la stessa trasformazione interna del capitalismo che riduce il ruolo dell’operaio nella creazione della ricchezza, grazie all’enorme crescita della stessa produttività del lavoro. Come previsto da Marx, nel suo incessante processo di innovazione, il capitale è destinato a produrre merci con sempre meno operai. Ricordava André Gorz nel 2005: “Con l’informatizzazione e l’automazione, il lavoro ha smesso di essere la principale forza produttiva e i salari hanno smesso di essere il costo principale della produzione”. Ma questo grande balzo del progresso tecnico pone una questione inaggirabile: “Quando la società produce sempre più ricchezza con sempre meno lavoro, come può far dipendere il reddito di ognuno dalla quantità di lavoro che fornisce?”. A questo punto dello sviluppo capitalistico le società umane avrebbero dovuto imboccare un assetto inedito di organizzazione della vita collettiva: il dimezzamento dell’orario di lavoro, l’approdo a una regolata distribuzione dell’occupazione, pena la creazione di un esercito di disoccupati e di lavoratori precari. Un inedito scenario di benessere collettivo o la creazione di un popolo di parìa.
Sappiamo quale strada è stata imboccata. Il processo di accumulazione della ricchezza sempre più affidato alla massimizzazione finanziaria, all’economia cartacea, sempre meno alla produzione di beni e alla loro distribuzione. L’origine della ricchezza è riconosciuta sempre più nelle macchine. Così l’organizzazione collettiva del tempo di lavoro è rimasta quella della società industriale; e il lavoro (dietro cui c’è la persona umana) ha perso gran parte della sua utilità economica, diventando un mezzo qualsiasi nell’obsolescenza programmata di tutte le merci. Di conseguenza le disuguaglianze lacerano il corpo sociale, la galassia dei lavoratori si riduce a massa dannata, strumento flessibile della macchina produttiva. E dentro la sempre più torva china utilitaristica del nostro tempo, la svilita funzione del lavoro trascina nella svalutazione l’umanità del lavoratore e quella di tutti.
Da tale angolazione storica appare in piena luce il contenuto nichilistico e disumanizzante delle politiche di flessibilità del lavoro condotte dai partiti politici negli ultimi tre decenni. Essi hanno operato, e operano per la svalutazione della vita, contribuiscono alla barbarie civile. Hanno creato l’humus ideale per cui si può rimanere indifferenti di fronte alla perdita seriale di migliaia di vite, donne e bambini, come di oggetti di deprivata utilità sociale.