Corriere della Sera, 21 gennaio 2025
La favolosa fabbrica delle reliquie
A metà del Cinquecento, per reagire alle contestazioni luterane, la Chiesa si pose il problema di tornare ad una «venerazione corretta» delle reliquie. La questione fu affrontata nel Concilio di Trento (nel 1563, sotto il pontificato di Pio IV) e si concluse con l’emanazione di un decreto che ristabiliva l’ortodossia del culto dei santi e dei loro resti. In realtà il vero scopo di quel documento ufficiale – chiarisce Federico Canaccini in Sacre ossa. Storie di reliquie, santi e pellegrini (Laterza) – era quello di porre un argine agli abusi dei secoli precedenti in materia di commercio delle reliquie. Il decreto stabiliva che nella venerazione dei santi, delle reliquie e delle immagini doveva essere «bandita ogni superstizione» ed «eliminata ogni turpe ricerca di denaro». Un «enorme cambio di marcia», lo definisce Canaccini anche perché furono adottate norme severe per l’uso delle «sacre ossa» allo scopo di prevenire la circolazione delle false reliquie «di cui tutta l’Europa oramai era piena». Era questa una novità dal grandissimo significato: «Ogni reliquia doveva passare sotto il vaglio dell’autorità ecclesiastica la quale, dopo averne valutato l’autenticità – o perlomeno la lunga tradizione –, esprimeva il proprio consenso al culto». Il decreto, scrive Canaccini, «venne ratificato con un’inaudita celerità», soprattutto perché in Francia era già esploso il primo terribile conflitto religioso, accompagnato da una vera e propria «furia distruttrice». Furia di distruzione anticipatrice di quella che si sarebbe riproposta due secoli dopo. Della quale si può leggere nelle pagine dei libri di Michel Vovelle, in particolare La mentalità rivoluzionaria. Società e mentalità durante la Rivoluzione francese (Laterza).
Tutto aveva avuto inizio con Costantino che attraverso l’Editto di Milano (313) avviò la trasformazione di quello da lui guidato in un impero cristiano. Secondo la tradizione fu sua madre, Elena, che trovò un modo assai particolare di conferire sacralità all’azione del proprio figlio imperatore. Elena, tra il 326 e il 327, si sarebbe recata, all’età di ottant’anni, in Palestina dove avrebbe trovato i resti della «Vera Croce». Tre secoli dopo la morte di Cristo. Secondo Ambrogio, vescovo di Milano (che ne scrisse passati altri sessant’anni dai ritrovamenti di Elena), la madre dell’imperatore avrebbe identificato i legni su cui Cristo era stato crocifisso e i chiodi che ne avevano straziato il corpo. Il tutto sulla base delle indicazioni contenute nei vangeli. Ne scrisse poi Paolino di Nola, a detta del quale Elena avrebbe individuato il carattere taumaturgico del legno a cui Cristo era stato appeso, facendovi poggiare il cadavere di un uomo che, all’istante, sarebbe resuscitato.
Già da tempo però avevano cominciato a circolare reliquie in tutta Europa. Intorno al 350 il vescovo Cirillo raccontò nella sua Catechesi che i visitatori della Terra Santa erano soliti portarsi a casa un frammento di quel legno a testimonianza concreta della «storicità» della passione di Cristo. Stranamente però Cirillo non fa menzione dell’impresa archeologica di Elena. Una storia piena di contraddizioni ben analizzata da Chiara Mercuri in La Vera Croce. Storia e leggenda dal Golgota a Roma (Laterza).
Dopodiché quando con Carlo Magno rinacque l’Impero d’Occidente, quello che noi conosciamo come Sacro Romano Impero, scrive Canaccini, il riferimento alla Palestina non fu più sufficiente e quello a Costantinopoli venne considerato perfino controproducente. Il «legame doveva essere diretto con Dio». Incmaro, arcivescovo di Reims, nel IX secolo racconta che un angelo sotto forma di colomba avrebbe consegnato a san Remigio un’ampollina sacra contenente un olio con cui ungere, al momento del battesimo, la fronte di Clodoveo. Alla morte di Carlo Magno, anche Ludovico il Pio fu unto con olio della santa ampolla. Ampolla che sparì e riapparve infinite volte finché, mille anni dopo, fu distrutta nel corso della Rivoluzione francese. Ma alcuni devoti ne raccolsero frammenti contenenti stille dell’olio sacro. Talché passata la bufera giacobina e napoleonica, nel 1825, all’atto dell’incoronazione, Carlo X di Borbone poté essere unto da quell’olio.
Per parte sua, anche il Santo Legno ritrovato dalla madre di Costantino andò perduto più volte e altrettante volte fu «miracolosamente» recuperato. Allorché, nell’agosto del 1099, i primi crociati entrarono nel Santo Sepolcro, non ne trovarono traccia. Ma riapparve, anche stavolta per vie misteriose, una settimana dopo. Fu però solo nel corso della quarta crociata (1204) quando – su impulso di Venezia e con l’approvazione di papa Innocenzo III – venne conquistata Costantinopoli, fu solo allora che tornò alla luce gran parte della Vera Croce. E, con essa, di altri reperti sacri. Da quel momento, la capitale dell’Impero d’Oriente, scrive Canaccini, «divenne una colossale fabbrica di reliquie per tutto l’Occidente». Delle prime fecero incetta, sempre secondo Canaccini, «potenti e furbi veneziani che, manco a dirlo, riuscirono a metterle sul mercato rapidamente e con enorme facilità».
L’Europa ne fu invasa. Così come da gocce, in gran quantità, del «latte della Vergine» (contro cui si scagliò Bernardino da Siena che provocatoriamente domandò: «Fu forse una vacca Maria?»). Ma anche del prepuzio di Gesù, di un suo dente, dei suoi peli della barba e perfino di un pezzo di pane da lui masticato. Le reliquie divennero merce preziosa per i sovrani che ne fecero incetta.
Baldovino di Fiandra regalò nel 1205 un grande frammento della Croce a Filippo Augusto re di Francia. Più tardi Baldovino II, sovrano di Costantinopoli, vendette al nuovo re di Francia Luigi IX (uomo pio e devoto che verrà fatto santo) la corona di spine di Gesù per una cifra esorbitante: il triplo delle spese che sarebbero state necessarie per la realizzazione della Sainte-Chapelle destinata a conservare la corona stessa. Quando Carlo d’Angiò nel 1266 sconfisse Manfredi nella battaglia di Benevento e conquistò il trono di Sicilia, donò alla cittadina di Montevarchi, da cui aveva ricevuto aiuto, un’ampolla contenente latte della Vergine. L’aveva avuta dal fratello, quel Luigi IX di cui si è detto. Il quale, a sua volta, l’aveva acquistata da Baldovino II. La reliquia «in grado di curare la sterilità e di restituire latte alle puerpere» attirava moltissimi pellegrini. Le cui ragguardevoli offerte, racconta Canaccini, «andarono ben presto a riempire le casse della Fraternita del Sacro Latte, costituita per conservare la reliquia e promuoverne il culto». Il prepuzio di Gesù conservato nella basilica romana di San Giovanni – come racconta Tonino Ceravolo in Il prepuzio di Cristo. Storie di reliquie nell’Europa cristiana (Rubbettino) – fu invece trafugato dai lanzichenecchi all’epoca del sacco di Roma (1527) per poi ricomparire, anche qui come per incanto, trent’anni dopo.
Già attorno al 1120 l’abate di una comunità benedettina, Guiberto di Nogent, scrisse un trattato assai dubbioso nei confronti delle reliquie. Guiberto intendeva polemizzare con i monaci di Saint Médard de Soisson possessori di un dente di Cristo. Ma come era possibile? Cristo era risorto e asceso al cielo «con tutto il corpo», quindi anche con i denti. I monaci replicavano che si trattava di un dente da latte, perduto da Gesù molto tempo prima della resurrezione. A questo punto Guiberto li definì «falsari» abili solo a conquistare la buona fede di «rozzi e ignoranti». Ed estese il discorso al latte della Vergine («una stupidaggine superstiziosa»), dal momento che era assai improbabile che un liquido di quel genere potesse esser stato conservato in uno stato di non coagulazione. E, qualora ciò fosse avvenuto, dopo un migliaio di anni sarebbe comunque svanito. L’elenco di questa fioritura di reliquie di cui parla Luigi Canetti in Frammenti di eternità. Corpi e reliquie tra Antichità e Medioevo (Viella) è sconvolgente.
Da quelle riconducibili a Cristo si passò alla Madonna. Fu «ritrovato» il suo mantello e anche la sua tunica, il velo, cuffie, scarpe e guanti. A Chartres è ancora esposta la camicia da notte da lei indossata a Betlemme. Il cerchio si allargò poi ad apostoli e santi. Limitandoci all’area italiana, scrive Canaccini, Amalfi rivendicava il corpo di sant’Andrea, Venezia quello di san Marco, Padova quelli di ben due evangelisti (Luca e Matteo), Ortona di san Tommaso, Benevento di san Bartolomeo. Genova sosteneva di possedere le ceneri del Battista nonché il «santo catino», «il vassoio su cui sarebbe stata consegnata a Erode la testa del precursore di Gesù».
Giovanni Calvino nel Trattato sulle Reliquie (Mimesis), pubblicato nel 1543, assesta il colpo decisivo contro questi culti parlando di una «smania», non esente da «superstizione». Il popolo «che si dice cristiano è giunto ad essere così talmente idolatra quanto mai lo furono i pagani». Sono state prese per reliquie di Gesù Cristo e dei suoi santi, «non so quali porcherie irragionevoli ed assurde». La gente «ne è rimasta così accecata che, qualunque valore si attribuisse alle cianfrusaglie presentate, le ha accolte senza criterio né indagine alcuna». Così non ha esitato a venerare «con gran devozione qualsiasi osso d’asino o di cane che il primo imbroglione facesse passare per osso di martire». Così Calvino.
La quantità di spine della corona di Gesù, ironizza lo stesso Calvino, lasciava supporre che nel corso dei secoli essa avesse germogliato. Ed esistevano tanti frammenti della Vera Croce da riempire la stiva di un bastimento. Gli apostoli, poi, con il tempo si erano moltiplicati tant’è che di almeno sei dei seguaci di Cristo venivano conservati corpi differenti in altrettante diverse località. Troppe erano le teste del Battista. E, a proposito del Battista, improbabile fosse autentico il dito (con cui avrebbe indicato Gesù) custodito in una teca dopo che erano trascorsi più di millecinquecento anni dalla morte del santo. L’abito di pelle di cammello del Battista, esposto in Laterano, era ad ogni evidenza di crini di cavallo. Del protomartire Stefano si esponevano brandelli ovunque e qualcuno osava spacciare per veri alcuni sassi con cui sarebbe stato lapidato. Altrettanto si faceva con i carboni su cui san Lorenzo sarebbe stato arso vivo. A Poitiers si potevano venerare le pantofole di san Paolo, d’ottima fattura, cucite in raso e ricamate in oro. A Carcassonne era concesso di pregare al cospetto della spada (tra l’altro molto piccola) brandita dall’arcangelo Michele contro Satana. Una «profanazione», una «sozzura» che nella Chiesa, secondo Calvino, non si dovevano più «tollerare». La Svizzera si adeguò a questa invettiva.
Lutero non fu da meno di Calvino. A Strasburgo – racconta Charles Freeman in Sacre reliquie. Dalle origini del cristianesimo alla Controriforma (Einaudi) – si distinse il predicatore Martin Bucero, il quale, con l’aiuto della gilda dei giardinieri, fece scoperchiare il sepolcro della patrona locale santa Aurelia, le cui ossa furono gettate in una fossa comune. Analogo destino ebbero poi le ossa di san Pietro il Giovane. In quell’orgia di distruzione, riassume Canaccini, a Basilea «furono devastate le reliquie degli apostoli Pietro, Paolo e Andrea, tre crani appartenuti a sant’Orsola, sant’Eustachio e san Pantaleo, alcune ossa di san Lorenzo e di san Benedetto, il dito del Battista, una fiala con il “sacro latte” e anche le reliquie di Enrico II fondatore della cattedrale».
Nel Settecento Ludovico Antonio Muratori, presbitero illuminista nonché fondatore della medievistica, ancora si stupiva della «pia frenesia» attribuendola ai «rozzi secoli» dell’Età di Mezzo. Ma precisava che all’epoca in cui lui stesso aveva vissuto non era cessato affatto «questo sconvenevole ludibrio». In che senso? Nel senso che ai suoi tempi erano poche le chiese che non possedessero «un buon capitale di queste dubbiose o false merci». «Non si troverà già chi venda sacre reliquie: pure chiunque ne desidera di qualsivoglia Santo, troverà qualche Santuario che gliele somministrerà, non so come».
Tutto finito tra il Settecento e l’Ottocento? Nient’affatto. Nel 2010 al Dipartimento di Genetica e patologia dell’Università di Uppsala è stato concesso di compiere un’analisi del Dna mitocondriale sui crani attribuiti a santa Brigida e a sua figlia Caterina anch’essa santa, entrambe conservate dalla fine del Trecento nell’abbazia di Vadstena. Il cranio della madre risultò appartenere a una persona vissuta non oltre il 1270 (Brigida morì a Roma nel 1373). Inoltre, nessun tipo di parentela legava le donne a cui erano appartenuti. Ciò non ostante, fa osservare con perfidia l’autore, «la devozione è rimasta immutata» e le reliquie di Brida e Caterina sono state comunque rimesse al loro posto.