Corriere della Sera, 21 gennaio 2025
Giulio Napolitano ricostruisce la storia del padre Giorgio
Giulio Napolitano, il tuo Il mondo sulle spalle è uno strano libro. Due biografie insieme, quella di tuo padre Giorgio e la tua e, sullo sfondo, cinquant’anni di vita italiana. Come mai?
«Perché il nostro è stato un rapporto fortissimo, sempre vissuto in una duplice dimensione inscindibile, pubblica e privata. Sin da piccolo sentivo di avere un padre importante, da più di vent’anni parlamentare e dirigente di un grande partito. Io ero l’ultimo arrivato in famiglia e avvertivo l’assillo di avere un dialogo con lui. E poi naturalmente contava l’epoca storica. Era un periodo di grande passione civile. Così fin da bambino sono stato immerso nel mondo della politica e nella comunità del Pci. Vedo questo padre autorevole, ma anche affettuoso, curioso della vita, che ti trasmette tanti stimoli. Con mia madre e con mio fratello Giovanni, andiamo ai comizi, alle feste dell’Unità, in campagna elettorale, ma lo seguo anche da solo, vado con lui a Botteghe Oscure, il pomeriggio dopo la scuola. Avevo appena sei o sette anni. Poi quando lui diventa capogruppo del Pci alla Camera e io sono alle medie comincio ad accompagnarlo anche a Montecitorio e scopro la civiltà del confronto politico anche tra forze opposte».
Tua madre, donna forte e spiritosa, ti definì allora «Il piccolo Spadolini», un mito inusuale per un bambino...
«In effetti... L’idea che per la prima volta, con la scelta di Pertini di incaricare Spadolini, ci fosse un non democristiano a Palazzo Chigi, mi aveva molto colpito. Avevo 12 anni, ero malato di politica, e poi Spadolini amava molto andare in televisione... Aveva questa grande faccia, non so se spaccasse il video, sicuramente lo occupava, e poi parlava un’altra lingua, rispetto ai leader Dc del tempo, persino un altro italiano, più forbito. E quindi io ne rimasi affascinato e nel mio piccolo sviluppai un’analoga tendenza all’autoglorificazione per le prove scolastiche: di qui la perfida presa in giro di mia madre».
Nel libro racconti due episodi dai quali non esci benissimo...
«Ero decisamente un bravo bambino, però ogni tanto i miei scatti di nervi li avevo. Avevo a cuore due cose: andare bene a scuola e vivere il mio tempo con mio padre. Il giorno dell’esame di seconda elementare io avevo proprio voglia di farlo, di far vedere a tutti quanto ero bravo, e la maestra invece mi disse: “No, Giulio, abbiamo fatto tardi, torna domani”. A quel punto, inopinatamente, la mia tensione esplose. Lei aveva lasciato incautamente la mano sul banco, io gliela afferrai e diedi proprio un bell’affondo con i miei due incisivi. Ancora prima, avrò avuto cinque o sei anni, eravamo appena arrivati a Mosca per le vacanze e fummo subito trascinati a un pasto frugale con i dirigenti sovietici che occupavano mio padre in complesse discussioni politiche. Per me era l’inizio delle nostre vacanze... Insomma, mio padre non mi prestava attenzione. Anche lì, una mano inavvertitamente poggiata sul tavolo... Per farmi ascoltare io prendo la forchetta e gli do una forchettata. Fu portato al pronto soccorso per mettere dei punti e per parecchio tempo ebbe la cicatrice sul dorso della mano...».
Racconti anche una tua certa difficoltà di relazione con gli altri...
«Il mio problema, da ragazzo, è che sto bene con i grandi, meno con i miei coetanei. Si accelera il mio sviluppo intellettuale e civile a scapito della vita normale di un adolescente. Ancora al Liceo Visconti, dove studio con passione e inizia il mio impegno politico, sono al centro della vita collettiva e quindi va tutto bene. Il problema scoppia all’università La Sapienza, la facoltà di giurisprudenza è ottima, ma è un porto di mare, mi sento solo, senza una vita normale. Lì i nodi vengono al pettine e, per fronteggiare quel disagio, su consiglio di mio padre, inizio una lunga serie di incontri con Adriano Ossicini, un bravissimo psicanalista, allora senatore della Sinistra Indipendente, in Senato. Non vere e proprie sedute di terapia, ma un modo di raccontarsi e di comprendersi».
Giorgio si preoccupa di te dopo averti visto molto giù durante una visita in Germania, dove studiavi.
«Avevo 25 anni, stavo facendo il dottorato di ricerca a Pisa, però mi mancava l’ispirazione, la visione. Ero stato mandato un po’ contro voglia a Francoforte, non avevo un progetto di ricerca che mi convincesse. I miei vengono a trovarmi lì, stavo in uno studentato un po’ triste ed ero sfiduciato, quindi si preoccupano. Mio padre mi fa un discorso molto bello, dicendo che non bisogna avere fretta nella vita, che è normale avere momenti di incertezza. Mi diceva: “Anche se ti può sembrare di girare a vuoto, non preoccuparti, anche queste esperienze possono essere preziose. Non avere ansia, non devi raggiungere nessun obiettivo, farai quello che riuscirai a fare”. Da lì trassi forza, chiamai Sabino Cassese, che era stato mio professore, ma non era il mio relatore di laurea, e piano piano decisi di cambiare materia. Trovai la mia passione: lo studio della pubblica amministrazione e del suo diritto, dell’interesse pubblico, dell’attuazione delle politiche pubbliche. E mi immersi nella ricerca e nell’insegnamento, prima a Viterbo e poi a Roma».
Il rapporto tra lui e Berlinguer è stato un rapporto complesso, non privo di conflitti, ma mi colpì, quando lo intervistai per il film su Berlinguer, la sua autentica, squassante commozione.
«Sì, era un rapporto molto forte, di grande sintonia e stima reciproca, intellettuale e umana. Sicuramente c’era un’antica solidarietà, che nasce forse nel momento in cui Berlinguer venne scelto come vicesegretario. Mio padre era l’altro candidato, ma fu lui stesso a chiamarsi fuori, convinto che Berlinguer avesse più titoli e più attitudine alla guida di partito, mentre forse mio padre aveva una più forte vocazione parlamentare e istituzionale. Poi c’era stata la profonda condivisione della stagione degli anni ’70, dell’avvicinamento del Pci alla prospettiva di governo, la strategia del compromesso storico, della solidarietà nazionale, la rottura con l’Unione Sovietica e l’apprezzamento della protezione sotto l’ombrello della Nato. In quei dieci anni ci fu dunque una grandissima sintonia e noi passavamo il tempo libero insieme, i fine settimana o le vacanze all’Isola d’Elba. Erano amici, non solo compagni di partito. Contava poi molto l’amicizia tra mia madre e Letizia, la moglie di Berlinguer».
Come reagì alla morte di Berlinguer?
«Ricordo il dolore di tutti noi. Io pensai subito a Letizia, con me sempre affettuosissima, e a Laura che, essendo la figlia più piccola, era quasi mia coetanea. Quando Berlinguer morì, siamo nel 1984, erano nati i contrasti politici tra lui e mio padre e questo sicuramente incise anche sui rapporti personali, infatti quella frequentazione, che era stata intensa a metà degli anni ’70, si ridusse. Ma in casa non ho mai sentito parlare male di Berlinguer, anche nei momenti di tensione. C’era e c’è sempre stato il senso di un impegno comune, di una lunga marcia da fare insieme, anche se, a un certo punto, sul dove andare e sul come farlo avevano idee diverse. Ad esempio, mio padre guardava con attenzione e rispetto all’opera di Craxi come leader del Psi e presidente del Consiglio, ne apprezzava la linea di politica estera ed europea, sperava che anche da lì potesse passare un rafforzamento di tutta la sinistra e del riformismo, mentre nel Pci, anche dopo la morte di Berlinguer, prevalsero l’ostilità e la critica pregiudiziale».
Cosa era la politica?
«Impegno totalizzante. Dimensione pubblica e privata inseparabili. Senso di comunità. Responsabilità e leadership collettiva. Visione ideale, ma anche pragmatismo e concretezza. Vita insieme alle persone e ai lavoratori. Speranze e preoccupazioni, non per sé ma per il proprio Paese. Di qui, quel sentirsi il mondo sulle spalle. Che era un sentimento non solo suo, ma di molti di quelli che hanno fatto politica della sua generazione subito dopo la Liberazione. Solo che a lui quel mondo sulle spalle è toccato portarselo più a lungo di tutti, fino all’inizio del nuovo Millennio quando la politica, intanto, era completamente cambiata».
Racconti i vari momenti della storia istituzionale di tuo padre: Presidenza della Camera, ministero dell’Interno, Parlamento Europeo. Lui aveva considerato quest’ultima come l’esperienza finale. E invece...
«Prima Ciampi lo nomina senatore a vita, riportandolo nella sua casa, il Parlamento. Fassino e il centrosinistra lo propongono per la Presidenza della Repubblica. Casini e Fini dicono subito di sì. Berlusconi tergiversa. Alla fine prevale la linea della Lega di Bossi: scheda bianca. Mio padre è eletto con una quarantina di voti in più del necessario: non pochi, ma nemmeno tantissimi. Io sono a casa con mia madre. La abbraccio mentre è in cucina a preparare il pranzo. Pochi minuti dopo arriva mio padre che aveva seguito lo spoglio in Senato. Si abbracciano e si accarezzano. Un pasto frugale con i commenti della televisione sullo sfondo. Poi le prime incombenze. I tanti messaggi. Mio padre inizia a pensare al discorso. Manda un mazzo di rose rosse a Letizia Berlinguer e va a visitare Antonio Giolitti. La sera sono a cena dai Ciampi al Quirinale. Gli spiegano il funzionamento quotidiano di quel complicato Palazzo».
La vicenda della caduta del governo Berlusconi, con il quale lui ha vissuto un rapporto non semplice.
«Ci sono stati duri contrasti ma anche una leale e rispettosa collaborazione istituzionale. Ad esempio Berlusconi affronta la tragedia del terremoto dell’Aquila con grande energia e pragmatismo. E anche il suo tono generale cambia, come dimostra il bel discorso di Onna per il 25 aprile, per il quale mio padre si complimenta con lui. C’è bisogno del massimo di unità nazionale. E poi c’è la presidenza del G8 con il vertice dei leader a L’Aquila. Tra l’altro è anche l’occasione per il primo incontro a Roma tra mio padre e Obama. Scatta una speciale alchimia e simpatia. Al termine, il giovane e coraggioso presidente americano esalta l’anziano presidente italiano, la sua grande leadership morale».
Questa fase più distesa durerà poco...
«Sì, il governo entra in crisi. Fini con un gruppo di suoi esce dal Pdl, poi anche dalla maggioranza. Il governo si salva per miracolo, ma è appeso a un filo. In più Berlusconi scopre di essere indagato per le sue frequentazioni. La situazione diventa caotica proprio mentre l’esposizione finanziaria dell’Italia sui mercati internazionali è sempre più grave. Lo spread è alle stelle. Mio padre, preoccupatissimo, ogni mattina chiama il governatore della Banca d’Italia per scambiare valutazioni e previsioni. Tutti nel Paese chiedono al presidente della Repubblica di prendere in mano la situazione. Sull’orlo del baratro, Berlusconi responsabilmente si dimette. Mio padre nomina Monti con il consenso di tutte le forze politiche che in Parlamento gli votano la fiducia con la maggioranza più larga nella storia della Repubblica. Inizia un percorso difficile ma essenziale per uscire dalla crisi e raddrizzare la situazione. I partiti finalmente collaborano. Le cose migliorano. Il peggio è passato. Ma si avvicinano le elezioni del 2013 e ricominciano calcoli e opportunismi. Si torna al voto senza alcuna riforma della legge elettorale».
L’esito è il caos, l’inesistenza di una maggioranza per governare.
«Sì, tre blocchi contrapposti, nessuna maggioranza, è stallo totale. Il premio di maggioranza alla camera lo prende l’alleanza guidata dal Pd di Bersani. Ma al Senato non ha i numeri a causa del grande successo dei 5 Stelle e della straordinaria rimonta di Forza Italia. E in più deve essere eletto il nuovo capo dello Stato. I candidati proposti dal centrosinistra cadono per colpa dei franchi tiratori al loro stesso interno. Mio padre assiste allibito e impotente, aveva guardato con favore alle ipotesi sia di Marini sia di Prodi. I 5 Stelle puntano su Rodotà di cui mio padre era amico da una vita e che stimava molto. Ma è una richiesta di resa alle altre forze politiche. Nemmeno la sua candidatura passa. A quel punto tutti, tranne i 5 Stelle e Vendola, vanno da lui e lo implorano di accettare la rielezione. Si sente ancora una volta il mondo sulle spalle e acconsente, nonostante fosse stato sempre contrario per ragioni istituzionali e personali. È rieletto a larghissima maggioranza. Pronuncia in Parlamento un discorso sferzante e applauditissimo. Annuncia che resterà poco, il tempo di garantire la formazione del governo e avviare le riforme».
Napolitano si trova in quel momento a fronteggiare il rischio della totale ingovernabilità del Paese.
«Lui ha sempre creduto nella democrazia parlamentare e quindi si è sempre rimesso all’indicazione dei partiti e del Parlamento. Il governo Letta era nato con un’ampia fiducia solo che, quando Renzi diventa segretario del Pd, fa capire che quel governo non gli piace più. Mio padre inizialmente è perplesso, preoccupato. Si era miracolosamente riusciti a formare quell’ esecutivo dopo mesi di paralisi... E l’Italia era ancora sotto procedura di infrazione europea, poteva essere molto pericoloso. Renzi fa però dichiarazioni sempre più critiche nei confronti di Letta e del suo governo e quindi era chiaro che non si poteva continuare così. A quel punto mio padre disse a Renzi che il Pd doveva assumere una posizione chiara: o sostenere lealmente questo governo o chiederne il cambio assumendosene la responsabilità. Renzi fece così, decise di giocarsi le sue carte e tutti i partiti che avevano sostenuto Letta dissero che erano favorevoli al cambio alla guida del governo. Quindi mio padre ne prese atto, anche se si dispiacque della brutalità di quel passaggio».
Il suo grande cruccio è stato non vedere uno spirito unitario sulle questioni istituzionali.
«Quando lui lascia il Quirinale la situazione è migliorata, anche grazie all’energia iniziale del governo Renzi. In quel periodo vengono approvate tante riforme, anche discutibili, che però segnano uno sforzo di modernizzazione. Anche le riforme costituzionali sembravano ben avviate, con un accordo tra centrosinistra e centrodestra. Ma purtroppo, dopo che lui lascia il Quirinale, c’è la rottura dell’accordo con Berlusconi e si va al referendum forse gestito non bene da Renzi. Sì, quello è stato il suo grande cruccio: vedere che le necessarie riforme non si realizzavano».
Lui volle fortemente l’incontro tra Gemma Calabresi e Licia Pinelli.
«Quella del terrorismo degli anni 70 e degli anni 80 è sempre stata una grandissima ferita. Tanti caduti per una violenza politica che mirava a minare le fondamenta della nostra democrazia, con divisioni che avevano attraversato la società italiana. Lui, negli anni del Quirinale, ha sentito fortissimo l’assillo di ricucire questo Paese, di rimarginare le ferite, di avvicinare le persone, di farle dialogare. L’incontro di quelle due donne coraggiose fu uno dei momenti per lui più emozionanti e importanti della presidenza, insieme alla celebrazione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia».
Mi ricordo, nella fase finale della sua vita, la preoccupazione per Clio.
«Sì, il loro è stato un rapporto eccezionale, pur nelle differenze dei caratteri e degli stili, corroborato da una profonda condivisione di ideali e di valori. Mia madre aveva le sue opinioni, non esitava a esprimerle, però era sempre rispettosa del ruolo e della posizione di mio padre. Non ha mai cercato protagonismi o visibilità. Nulla sarebbe stato possibile senza di lei e per questa ragione le ho voluto dedicare il libro. Nell’ultima fase mio padre era molto angustiato e preoccupato per lei e, negli ultimi momenti delle loro vite, quando ovviamente le parole si erano ridotte, c’era sempre quello sguardo, quella ricerca di un’intesa naturale e della protezione reciproca».
Parliamo dell’unico svenimento della tua vita.
«Il mio unico svenimento avviene nell’esatto momento in cui mio padre muore. Siamo tutti accanto al letto, il suo cuore smette di battere. In quel momento mio fratello e mia nipote si abbracciano, mi giro, sto per unirmi a loro e invece svengo. Mio fratello fa appena in tempo a prendermi. È come se, in quel momento, fosse andata via una parte di me».