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 2025  gennaio 20 Lunedì calendario

È finita la 47esima Rally Dakar (ex Parigi-Dakar)

Archiviata l’edizione numero 47 della corsa più famosa del mondo. Un tempo conosciuta come Parigi-Dakar oggi si chiama semplicemente Rally Dakar e si svolge in Arabia Saudita. Piloti provenienti da 52 stati si sono sfidati su moto, auto, camion per due settimane, muovendosi da un checkpoint all’altro. Una prova di velocità e resistenza attraverso dune imponenti, montagne, paludi, valli rocciose. Forature e incidenti sono la quotidianità. Tutto finisce al «bivacco»: una città itinerante fatta di tende e motorhome, dove riparare il proprio mezzo, riposarsi e da dove ripartire per una nuova tappa. La gara tra le auto è stata vinta dal team Overdrive Racing composto da Yazeed Al-Rajhi e Timo Gottschalk su una Toyota Land Cruiser. Quattro i costruttori che si sono sfidati: Ford, Mini, Dacia e Toyota. Sotto, il nostro doppio racconto.*[Francesca Cibrario]
Ha’il (Arabia Saudita) – La buggy di Sébastien Loeb rotola come una botte avvolta da una nuvola di sabbia. Carlos Sainz senior finisce la gara a testa in giù in un fosso. Danilo Petrucci sdraia il suo camion su un lato. Anche i piloti più esperti alla Dakar possono essere protagonisti di rovinosi incidenti. Del resto è la più dura e leggendaria maratona del deserto. Ormai lontani i tempi in cui gli equipaggi da Parigi raggiungevano il Senegal e anche quelli in cui la competizione ha raggiunto il Sudamerica. Per la sesta volta si svolge interamente in Arabia Saudita, dove è riuscita a mantenere quasi intatto il fascino originale e continua a fare proseliti. La 47esima edizione – che si è tenuta dal 3 al 17 gennaio su un tracciato di oltre 7.700 chilometri totali, di cui 5.115 chilometri cronometrati e suddivisi in 12 tappe, con partenza a Bisha e arrivo a Shubaytah – ha visto la partecipazione di 335 veicoli per un totale di 580 conducenti e co-piloti, provenienti da 52 nazionalità.
«Alcune tappe sono dure fisicamente e il tuo corpo ha così tante sollecitazioni che è un po’ come se combattessi contro Mike Tyson nell’abitacolo —, racconta Lucas Moraes, alla sua terza esperienza con uno dei sei team della Toyota Gazoo Racing —. Questa è l’edizione più dura a cui ho partecipato. La velocità negli ultimi tre-quattro anni è cresciuta e si va fino a 170 chilometri all’ora, perché le auto si sono molto evolute e, così, il lavoro del navigatore è diventato più difficile. Il motore del nostro Hilux Evo è lo stesso della Land Cruiser 300», il fuoristrada di lusso che per alcuni giorni ci ha portato su e giù dalle dune e attraverso piste di terra e pietraie nel tentativo di intercettare il tracciato di gara e fare il tifo per i pazzi che guidano i mostri nel deserto.
«Per regolamento l’auto deve avere un propulsore derivato da un modello di serie e il nostro, grazie al turbo, è particolarmente performante sulle dune», continua il 35enne brasiliano. Ma quello tra i prototipi e le vetture di tutti i giorni è un circolo virtuoso, perché la Dakar è il più grande laboratorio itinerante del mondo. Qui si testano in condizioni estreme e su lunghe distanze le tecnologie che poi vedremo sulle nostre strade. Un esempio è il biocarburante realizzato da Repsol che alimenta gli Hilux Evo e che consente di abbassare le emissioni di anidride carbonica del 70 per cento.
Ma un giorno – non troppo lontano – si farà anche meglio e si azzererà l’impatto ambientale del motorsport: lo dimostra il laboratorio nel laboratorio, la categoria Dakar Future dedicata ai veicoli di nuova generazione, in cui per la prima volta compete un veicolo chiamato HySE-X2 che si muove esclusivamente a idrogeno: «Mettete la mano, sentite l’aria umida che esce? Potete anche respirarla», dice Silo Bento, l’ingegnere che si occupa dello sviluppo del progetto, mentre avvicina il volto allo scarico di una strana vetturetta derivata da una moto e con telaio modificato per farci stare quattro bombole. Mentre la mostra nel box del team, i meccanici lavorano freneticamente per metterla a punto per la tappa successiva. A un paio di metri di distanza c’è un grande tavolo. Intorno, oltre al team leader Kai Daichi c’è un rappresentante di ogni azienda coinvolta nel progetto: Toyota, Suzuki, Kawasaki, Honda e Yamaha, le grandi rivali giapponesi per una volta unite da un obiettivo superiore. «Ognuno ha un compito diverso – spiega ancora l’ingegnere –, ma in caso di bisogno si danno una mano». Proprio come nello spirito originario della Dakar.
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[Edoardo Nastri]
Bisha (Arabia Saudita) – Sole, vento, sabbia, polvere e velocità. L’urlo acuto di un motore annuncia al campo base di Bisha l’arrivo della Sandrider, il mostro a quattro ruote con cui Dacia ha deciso di correre la Dakar per la prima volta. «Siamo andati fortissimo!», dice sorridente il pilota mimando con le mani il movimento del volante. Non parliamo di uno qualsiasi: lui è Nasser Al-Attiyah, la star della Dakar. L’ha vinta cinque volte, diciannove volte si è aggiudicato il campionato rally del Medio Oriente ed è medaglia di bronzo di tiro al piattello (si, tiro al piattello) alle Olimpiadi di Londra del 2012. È uno di quegli uomini nati per vincere e Dacia l’ha scelto per compiere la sua impresa: «Sono nato in Qatar e corro nel deserto da quando ero ragazzo. A un certo punto ho capito di avere la dote della precisione: dopo tanta fatica sono arrivato terzo alle Olimpiadi nel tiro al piattello. Una bella soddisfazione competere per il proprio Paese. E poi, in Qatar, gli atleti vincenti si assicurano uno stipendio per sempre», dice con una spiccata ironia, visto che appartiene alla famiglia reale qatariota e almeno questa gara ha la fortuna di non doverla correre. Al fianco del principe delle dune c’era il navigatore Édouard Boulanger, mentre gli altri due equipaggi Dacia vedevano Cristina Gutiérrez e Pablo Moreno, Sébastien Loeb e Fabian Lurquin.
Ma che cosa ci fa un marchio come Dacia alla Dakar? «Nessun brand è più coerente – dice Denis Le Vot, 59 anni, Ceo di Dacia —. Essere qui è naturale. Nel 2021 abbiamo rivoluzionato il marchio seguendo alcuni fondamentali. Volevamo che fosse robusto ed essenziale, che avesse buoni prezzi e che fosse attrattivo grazie a un design rinnovato. Esiste, quindi, un evento migliore della Dakar per dimostrare l’affidabilità e il potenziale di Dacia?». Probabilmente no, visto che il deserto non sembra essere troppo ospitale nemmeno con l’uomo: appena il sole tramonta il vento si alza, la sabbia vola e i gradi scendono a zero, regalando cieli tersissimi e stellate che assomigliano a diamanti.
Dacia ha colto questa occasione anche per testare il modo di progettare i propri veicoli e capire la resistenza di alcuni suoi componenti. Un modo per consentire di abbassare i prezzi delle loro auto in vendita che si aggiunge a un trucco: «I nostri modelli costano meno per diverse ragioni tecniche e un percorso fatto di discussioni serrate e concretezza – continua Le Vot, che di pragmatismo se ne intende visto che è stato lui a curare le trattative dell’uscita del gruppo Renault dalla Russia quando è scoppiata la guerra in Ucraina —. Utilizziamo una sola base per tutti i nostri modelli, quindi anche le vetture più grandi peseranno 200 kg in meno, avranno meno componenti e potranno accedere a economie di scala maggiori». L’avventura di Dacia alla Dakar riflette anche il legame che questo brand ha con il 4x4: «Non lo abbandoneremo: molti clienti ci chiedono la trazione integrale. Penso a chi vive sulle Alpi oppure sulle colline dove si produce il vino. In molti stanno lasciando la trazione integrale, noi no». E se partecipare al rally raid può diventare motivo di avvicinamento di un pubblico più giovane, le auto sportive restano escluse: «Non sono nello spirito del marchio, noi siamo un brand accessibile. I nuovi investimenti saranno orientati ad abbassare ancora le emissioni di CO2 dei nostri modelli e cercare soluzioni innovative come l’utilizzo di carburanti sintetici che, proprio come abbiamo fatto qui alla Dakar per le Sandrider, derivino da rifiuti: vogliamo che funzionino sui nostri motori quasi senza modifiche».