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 2025  gennaio 20 Lunedì calendario

Intervista alla nipote di Montanelli

La prima immagine di suo nonno, Indro Montanelli?
«In barca a vela, in Sardegna. C’erano anche mia nonna e lo stilista Nino Cerruti. Avrò avuto 4 o 5 anni e per tenermi buona mi fecero credere che lì a Capo Caccia, in una grotta, viveva Mago Merlino».
Quando si rese conto che era un uomo molto importante?
«Quando le Brigate Rosse gli spararono addosso».

Letizia Moizzi, 66 anni, ha una «nonneria importante». Il nonno paterno, Ernesto Moizzi, fondò la prima Banca Privata Finanziaria, poi acquisita da Michele Sindona. La nonna materna, Colette Rosselli, ha insegnato le buone maniere a generazioni di italiani, con lo pseudonimo di Donna Letizia. Ed è stata moglie di Indro Montanelli.
Lo chiamava nonno?
«No, zio. Perché quando nacqui, non aveva ancora 50 anni
e non appena cominciai a gattonargli intorno balbettando “nonno”, chiese di chiamarlo zio. Poi, quando diventai grande, cambiò idea. Ma ormai per me restava Zetamaiuscola-Io-Indro».
Che nonno era?
«Coccolone. Mi veniva a prendere a scuola, mi accompagnava dai dottori, perfino dal ginecologo. Io non dicevo mai che era mio nonno, non volevo favoritismi».
Però fu lui a farla assumere al Giornale. Diventare giornalista era inevitabile?
«Fu un’imboscata! Studiavo legge e una sera in trattoria disse al suo capocronista: “Da domani questa signorinetta comincia a lavorare con te. Trattala peggio degli altri”. E così fu. Quando scrivevo male qualcosa, quel capo mi lanciava il posacenere o l’elenco del telefono. Per 5 anni lavorai solo cercando di non far fare brutta figura allo Zioindro, poi scoprii che mi piaceva».
A lui il primo contratto lo fece l’agenzia United Press.
«A New York imparò le basi del giornalismo. Una volta scrisse di Roosevelt e il capo chiese: “Roosevelt who?”. Il presidente. “E allora devi scrivere President Roosevelt”».
Dov’è finita la scrivania di ciliegio che gli fece il nonno adottivo Emilio Bassi?
«È nella Fondazione Montanelli Bassi, a Fucecchio, dove ho fatto ricostruire il suo studio. Ma al Giornale ho visto non pochi giornalisti, oggi importanti, sedersi alla scrivania e accarezzare di nascosto la sua Olivetti 32».


Suo nonno ha attraversato un secolo di storia. Chi gli rimase più impresso?
«Churchill, senza dubbio. Lo stimava moltissimo, per il coraggio e perché sapeva scrivere bene, dote per lui importantissima. Perfino di Mussolini apprezzava la scrittura».
Un personaggio deludente?
«Marlene Dietrich: emanava gelo
con la sola presenza».
Frequentò la Magnani.
«Era amica di mia nonna. Non fece carriera in America perché non parlava l’inglese e questo la frenò. Quando, 20 anni dopo, scoprì che neppure Sophia Loren e Gina Lollobrigida lo parlavano e si facevano doppiare, rimase male».
Mike Bongiorno.
«Lo conobbe in carcere a San Vittore. Sono sempre rimasti in contatto. Come poteva non voler bene a un ragazzino che rischiava la vita per lui, quando portava i pizzini alla moglie Maggie, detenuta nell’ala femminile?».
Montanelli raccontò che fu salvato dalla condanna a morte dal cardinale Schuster. Ma ad alcuni storici la condanna non risulta.
«Indro, per far arrivare la sua richiesta d’aiuto al cardinale Schuster, chiese a una guardia carceraria austriaca di recapitargli una lettera. Come prova gli diede la sua catenina con la croce, e quello ricambiò dandogli la sua medaglietta. Indro la portò al collo per tutta la vita. Quanto alla condanna, c’è un telegramma dal ministero degli Interni in cui Buffarini Guidi, per conto di Mussolini, chiede ai tedeschi di fucilarlo».
Era stato un fan del Duce.
«Cambiò idea al ritorno dai Balcani. Molti pensano che fosse fascista o monarchico. In realtà era un anarchico borghese, che si sentiva tradito dalla borghesia».
La depressione?
«Cominciò a soffrirne a 11 anni,
a Nuoro, dove il padre era preside nella Scuola Normale. Ha sempre amato molto la Sardegna. La depressione si ripresentò ogni dieci anni. Io non me ne accorgevo. Mia nonna lo portava a Villa Borghese per estenuanti passeggiate, sfiancandolo di parole. Solo io sono riuscita a fargli prendere i farmaci».
In che modo?
«Mi accorsi che teneva una pistola sotto il letto ed ebbi paura. Così, d’intesa con il professor Giovanni Cassano di Pisa, cominciai a sbriciolargli gli antidepressivi nei pasti. Poi lo convinsi a farsi fare curare da lui in Toscana».
Che cosa diceva del Corriere della Sera?
«Era il grande amore della sua vita, il primo e l’unico».
Andò via con l’arrivo di Giulia Maria Crespi.
«Il problema non era tanto l’editore, che può pure non gradirti. Al Corriere lo ferì Piero Ottone, che lo abbracciò piangendo prima di firmare la nota di separazione».
Di quale scoop era più orgoglioso?
«Delle corrispondenze dalla guerra in Ungheria: indispettirono destra e sinistra».
Aneddoti curiosi?
«Gli domandai se c’era competizione tra colleghi. E lui: “Come no? Cercavo di arrivare per primo al telefono per dettare il pezzo, per poi strappare gli spinotti”».
Incontrò Hitler.
«Erano vicini a Blomberg e Hitler stava ripassando un discorso sotto un albero. Indro parlava il tedesco e capì tutto. Ma quando chiamò Borelli al Corriere, lui gli disse di lasciar perdere. Hitler, poi, fece lo stesso discorso in Parlamento: era la dichiarazione di guerra alla Polonia».
Berlusconi e il Giornale.
«Berlusconi era il proprietario del Giornale, ma Indro si considerava il padrone, lo aveva creato lui. La discesa in campo cambiò gli equilibri e fu costretto a dimettersi».
Parliamo di Destà, la sposa bambina etiope. In una Stanza, sul Corriere, difese la scelta in toni poco condivisibili.
«Lo dica pure: sgradevoli. Anche in tv. Non ne parlammo mai. Posso dire che le cose vanno contestualizzate. E comunque in ogni casa dove ha vissuto, si è portato dietro la foto di quella prima moglie, che ha amato davvero».
Fanno bene gli ambientalisti a macchiare la sua statua?
«No di certo, considerate le sue tante battaglie per l’ambiente: Gian Antonio Stella le racconta tutte in un libro. Sulla statua, voluta dal sindaco Albertini, vorrei aggiungere che ero contraria, e l’ho fatto mettere a verbale, perché era contrario lui. Dopodiché sono felice che l’abbia realizzata Vito Tongiani, un comunista!».
A quale premio era più affezionato?
«Al Principe delle Asturie, conferito dal Re di Spagna, per l’originalità della scrittura come giornalista e storico».
Il libro che lei preferisce?
«Un romanzo: Herzen. Vita sbagliata di un fuoruscito. Ha un che di romantico e passionale che non era tipico suo».
Alla Fondazione di cui si occupa vengono in tanti?
«Sì, molti stranieri: siamo proprio sulla via Francigena. In futuro vorrei renderla telematica sul modello del Museo di Gianni Rodari a Omegna».
Con la Fallaci in che rapporti era?
«Avrebbe voluto che collaborasse al Giornale e le chiese di raccontargli l’America, mandando storie che cominciavano con “Caro Indro”. Poi non se ne fece nulla. C’è una corrispondenza fitta nella quale nessuno dei due ci fa una bella figura. Magari con il nipote di Oriana valuteremo se farla uscire, prima o poi».
Tra le battaglie civili quale considerava più importante?
«Quella sull’eutanasia.
Anticipò tutti. La sua preoccupazione, da laico, era il diritto a una morte dignitosa».
Come sono stati gli ultimi giorni alla Madonnina di Milano, dove è morto il 22 luglio del 2001?
«Sono sempre stata con lui. Gli sarebbe piaciuto vivere in una Rsa vicino a me. “Io sarò il tuo Jukebox”, diceva. “Tu metti una monetina e io ti racconto un ricordo”».
Le piace la foto iconica di suo nonno con la Lettera 22 di Fedele Toscani?
«Non è una Lettera 22, nel 1940 non c’era ancora: è una MP1 Olivetti.
La foto, invece, non è certo che sia di Toscani, perché purtroppo la famiglia non ha il negativo. Tempo fa, mi offrirono una montagna di soldi per la Fondazione, pur di usarla in una pubblicità. Ma mi vergognavo all’idea di far mettere un computer sulle sue ginocchia».
Chi è oggi il suo erede?
«Nessuno».