la Repubblica, 20 gennaio 2025
La legge si interpreta
I magistrati non hanno mai applicato la legge. I magistrati hanno sempre interpretato la legge. L’interpretazione non è la brillante trovata di qualche toga rossa imbizzarrita: nei nostri codici la prevede espressamente l’articolo 12 delle preleggi.L’interpretazione è l’anima del diritto per una ragione molto precisa: le leggi dispongono in via astratta e generale ma non possono prevedere l’infinita varietà delle vicende umane. Le leggi possono delimitare il parametro di conoscenza del presente, ma non prevedono il futuro. La Storia evolve e cambia, le leggi non sempre tengono il passo. Ci sono norme che durano decenni, secoli. Sopravvivono perché qualcuno le interpreta, le adatta al progresso, le armonizza con il mutare del tempo. Il Codice Rocco è intriso di mistica fascista. Le leggi successive hanno cancellato le sue disposizioni indifendibili. Tutto il resto è stato salvato grazie all’interpretazione. Il “comune senso del pudore” condannòUltimo tango a Parigi negli anni Settanta, e lo assolse quindici anni dopo. Non era cambiata la legge: ne era cambiata l’interpretazione. Si tratta di una verità ovvia, perfettamente nota agli insigni giuristi che siedono in parlamento, inclusi coloro che ricoprono incarichi governativi: nessuno di costoro ha frequentato un corso di applicazione della legge, ma tutti hanno studiato teoria dell’interpretazione. Non c’è un legale, compresi quelli ossessivamente devoti al mantra del “giudice che è pagato per applicare la legge e basta” che, nel corso della sua carriera, non abbia sollecitato, proposto, invocato al giudice una certa interpretazione della stessa norma: magari chiedendone una rigorosa quando difensore di una parte lesa, e suggerendone una più mite quando patrocinante di un presunto colpevole.L’interpretazione come anima del diritto è una materia affascinante intorno alla quale il pensiero giuridico occidentale si esercita dalla notte dei tempi. Gli addetti ai lavori, qualunque sia illoro credo ideologico, dovrebbero inorridire di fronte alla rozzezza e alla banalità degli argomenti che costituiscono oggi l’ossatura del dibattito su giustizia e società. E gli aedi del pensiero liberale farebbero bene a ricordare le decine di sentenze “coraggiose” che hanno contribuito a rafforzare, quando non ad anticipare, certe grandi riforme, dal divorzio all’aborto, per non parlare di fecondazione assistita, suicidio assistito, unioni civili, tutela dei diritti dei lavoratori e sicurezza sul lavoro, e via dicendo: tutti progressi nei quali l’azione “politica” ha trovato sponda in un’interpretazione della legge quanto meno avanzata. E invece: tutti a rimpiangere il giudice che “applica la legge e basta”. Una figura che semplicemente non può esistere. Siamo in tempi in cui espressioni come “autonomia e indipendenza” dei giudici risultano indigeste a una visione dell’agire politico che detesta i centri di mediazione, gli ostacoli tecnici ai propri deliberati, le procedure, la lentezza ponderata che in generale caratterizza la classica tripartizione dei poteri. L’idea stessa che possano esistere difformità interpretative è rifiutata. Non è una novità. Più volte, nella storia, si è assistito al tentativo di limitare, se non impedire, l’interpretazione: dagli imperatori romani al giudice “bouche de la loi” dei giacobini, sino ai bolscevichi e ai regimi totalitari in genere. Esperimenti che per un po’ persino funzionano: da un lato, spuntano organi speciali affollati di fedeli esecutori che hanno impressa nel dna l’interpretazione giusta, cioè quella gradita ai potenti; dall’altro il dissenso si esaurisce sotto i colpi della repressione. Però, prima o poi, l’interpretazione risorge. Per un po’ se ne sta nascosta fra le pieghe del tempo, attende il momento propizio, e poi un bel giorno un avvocato propone una lettura diversa di una norma che sembrava consolidata, e un giudice la fa propria, e l’avventura della giustizia ricomincia.