Corriere della Sera, 20 gennaio 2025
Il potere delle oligarchie
Il presidente degli Stati Uniti, nel lasciare la Casa Bianca, ha messo sull’avviso il mondo: la democrazia, i diritti, le libertà sono in pericolo a causa di poche imprese, molto ricche, che hanno concentrato un enorme potere tecnico, economico e politico. La solennità dell’occasione e del discorso consente di escludere che Biden abbia solo reagito all’asse Trump – Musk e che si sia accorto del fenomeno solo al termine del suo mandato, anche se ci si può chiedere quali contromisure abbia adottato lui stesso per contrastarlo.Infatti, le sue uniche contromisure sono state le iniziative della Federal Trade Commission e la nomina di uno specialista come Tim Wu quale assistente del presidente per la tecnologia e la concorrenza. Dobbiamo quindi interrogarci: che cosa dobbiamo temere e che cosa possiamo fare per consolidare la democrazia e i diritti?
Partiamo dalla diagnosi. Non si sono mai visti, nella storia del mondo, poteri privati affermatisi tanto velocemente, tanto ricchi, potenti, con zone territoriali e ambiti funzionali tanto estesi come le Big Tech. Hanno capitalizzazione di borsa superiore al prodotto interno lordo di molti dei 193 Stati del mondo. Cinque di esse hanno prodotto, nel solo primo trimestre 2024, 94 miliardi di profitti netti. Una di esse (Amazon) ha oltre un milione e mezzo di dipendenti.
I precedenti sono pochi e diversi. Le «Sette Sorelle» monopolizzavano, tra il 1928 e il 1974, solo produzione e commercio del petrolio e dei suoi derivati; solamente cinque di esse erano nate su suolo americano; la loro azione non si estendeva a tutto il mondo.
Le Big Tech hanno da 50 a 20 anni di vita e sono nate su suolo statunitense. Devono il loro sviluppo alla creazione di nuove tecnologie basate sull’informatica, a capaci innovatori, all’atteggiamento permissivo del governo nazionale, che o ha adottato norme di favore, come quella del 1996 (le famose ventisei parole più importanti della storia di Internet), o ha «lasciato fare», astenendosi dall’intervenire con la disciplina antitrust (con una unica eccezione importante nel 1998) o con la regulation. In questo modo, in una sola nazione, si sono potuti sviluppare poteri privati universali, beneficiando innanzitutto lo Stato nazionale che si era astenuto, che ora se ne vale a diversi fini, dalla ricerca di prove in materia penale ai controlli fiscali, fino all’ambito militare (da cui Internet è nata). Solo di recente il Dipartimento di giustizia ha aperto indagini per abuso di posizione dominante nei confronti di due Big Tech, Google e Apple, ma la Corte suprema di quel Paese riconosce ai social network il potere di regolare i contenuti delle piattaforme (che consentono di influenzare gli spazi pubblici, ma anche di esprimere opinioni radicali e divisive).
Si è venuta a creare così una situazione nuova. Poteri privati sono più potenti di quelli pubblici. Imprese nate in una nazione sono diventate sovranazionali, globali: sono l’America, ma sono anche ovunque nel mondo; sono nazionali, ma operano globalmente; sono sottoposte a 193 giurisdizioni nazionali sovrane, ma possono sfuggirvi, grazie ad arbitraggi, o sfidarle. Tanto che uno dei manager di una Big Tech ha dichiarato: «io metto in contatto quattro miliardi di persone con i loro governi» e «l’organizzazione che io dirigo è più simile a un governo che ad un’impresa».
Questi nuovi poteri forniscono servizi divenuti molto diffusi in ogni ambito, pubblico e privato, come il cloud computing, il trasporto dati, la gestione di sistemi di crittografia, e, nello stesso tempo, hanno una capacità prima sconosciuta di influenzare il mondo: ad esempio, Apple può localizzare propri servizi in India invece che in Cina; Microsoft acquisire partecipazioni in imprese di Abu Dhabi; Starlink concedere all’Ucraina connessioni satellitari a Internet, a condizione che non vengano utilizzate per la Crimea.
Le reazioni degli antichi sovrani, gli Stati, a questa espansione universale di poteri privati sono state enfatiche ed inefficaci. I governi nazionali si sono preoccupati innanzitutto della propria sovranità fiscale, perché le Big Tech possono pagare imposte nei Paesi con sistemi fiscali meno pesanti. Gli Stati sono quindi andati alla ricerca di una loro stabile organizzazione nel territorio nazionale. Poi, nel 2021, hanno raggiunto un accordo inefficace: la global minimun tax. Si sono accaniti: un esempio le procure italiane contro Meta per evasione fiscale. Finché l’Unione europea non si è resa conto che occorreva mettere in campo quella che è stata chiamata la «sovranità digitale dell’Unione», iniziando una duplice azione, antitrust (contro Microsoft, Google, Meta, Amazon, Apple) e regolativa (con il pacchetto europeo sul mercato e sui servizi digitali, sui dati e la relativa governance e, da ultimo, sull’intelligenza artificiale). Insomma, si è capito che non si possono contrastare giganti universali rimanendo nelle frontiere statali. Questa inedita asimmetria tra gli Stati deboli e i poteri privati forti ha prodotto un risultato benefico, perché ha spinto i primi a coalizzarsi, cercando di stabilire alcune regole del gioco, anche se il mondo multipolare dei governi nazionali fatica a decidere congiuntamente, a livello globale. Ed è questo il punto al quale siamo.
Per il futuro, bisogna innanzitutto non considerare le Big Tech solo come una minaccia, ma anche come una opportunità da sfruttare con giudizio. In secondo luogo, dettare poche regole, ma a dimensione globale – là dove l’unico regolatore esistente, l’Icann, non basta – e senza intenti dirigistici. Terzo: non temere l’eccessiva dimensione (bigness), ma il modo in cui viene utilizzata. Quarto: evitare di adottare regole finalistiche e preoccuparsi dei casi nei quali sono in gioco diritti fondamentali, come quelli che riguardano l’informazione, o procedure essenziali ai sistemi politici, come quelle che riguardano la formazione dell’opinione pubblica (il recente passo indietro di Meta sul fact-checking deve far riflettere anche sui rapporti dei grandi poteri privati con la politica). Quinto: riconoscere che sarebbe sbagliato «rinazionalizzare» ciò che è nato universale, perché quello che sta accadendo realizza (in modi diversi, a pezzi e bocconi, forse malamente) un antico sogno dell’umanità, quello di abbassare le barriere e di abbandonare le divisioni: Seid umschlungen, Millionen!/Diesen Kuss der ganzen Welt!