Avvenire, 19 gennaio 2025
Tommy, “bambino speciale” che riesce a spiegarsi benissimo con i simboli della comunicazione aumentativa
Tommaso non ha fretta. Perché sa che il tempo è un dono prezioso, di cui prendersi cura. Per comunicare con gli altri, allora, si prende tutto il tempo, e l’attenzione, che servono. E mentre lo fa, ogni altra cosa passa in secondo piano. Per raccontarti le sue avventure, scorre con calma le pagine aperte sullo schermo del computer e poi guarda con te un video e poi un altro e un altro ancora.
Se invece deve comunicarti con che cosa ha deciso di giocare, le sue mani si muovono con delicatezza sui simboli che compongono il suo personale “alfabeto”. Indugiano con calma sulle immagini, per poi fermarsi decise su quelle che rappresentano un garage colorato e la più grande delle macchinine a sua disposizione. Quando poi arriva il momento di salutarsi, Tommaso – Tommy come lo chiamano tutti – prima avvicina il suo pugno al tuo, poi ti dà il cinque. E prima di andarsene, si gira ancora verso di te, con la mano aperta, per un ultimo saluto. Perché Tommy sa dare importanza e dedicare tempo a chi incrocia sul suo cammino. E anche se l’incontro con lui è breve, come lo è stato il nostro, mentre lo guardi allontanarsi sorridendo, non puoi fare a meno di pensare che la volontà può essere più forte di ogni cosa. Anche della diagnosi più dura, dei momenti di sconforto, delle difficoltà innegabili. Basta ricordarsi sempre, come fanno Tommaso e la sua famiglia, che la parola “mai” non esiste.
Tommy sta per compiere undici anni. Durante la nascita al suo cervello non è arrivato ossigeno in quantità sufficiente. La diagnosi è stata di quelle da far tremare i polsi: “asfissia da parto” o, meglio, “encefalopatia ipossico-ischemi-ca”, che porta con sé importanti ritardi psicomotori, cognitivi, del linguaggio, dello sviluppo. E ancor più dure sono state le parole dei medici, secondo i quali Tommaso avrebbe potuto non avere più di 72 ore di vita o comunque «rimanere un vegetale per tutta la sua esistenza». «Una prospettiva difficile da metabolizzare. Soprattutto per due giovani genitori, al loro primo figlio», ricorda Maria, la mamma di Tommaso.
«Però, dopo un periodo in terapia intensiva, Tommy è tornato a casa. Da quel momento io e mio marito abbiamo cercato di capire quanto quel “black out” avesse compromesso il suo sviluppo, sia dal punto di vista motorio che cognitivo. E il nostro obiettivo è stato da subito uno solo: volevamo che nostro figlio stesse bene e fosse felice».
Al di là delle drammatiche previsioni fatte alla sua nascita, Tommaso, pian piano, si fa strada nel mondo. Fra molte difficoltà e tante conquiste. «È stato, ed è tuttora, un percorso complicato eppure anche gratificante e pieno di gioia. Ti devi sempre rimettere in discussione. Passi attraverso continui step di accettazione, dolorosi ma necessari», riprende Maria. «Spesso mi sono arrabbiata e ho fatto fatica ad adattarmi a certi limiti. E so che questo succederà ancora. So anche, però, che dopo lo sconforto ogni volta prevale un unico pensiero: capire che cosa serve a Tommy in quel momento». Maria non si ferma davanti a nulla, nemmeno davanti ai suoi timori e alle sue perplessità. «L’asilo nido, per esempio. Non ero tanto convinta, ma ho seguito il consiglio della neuropsichiatra di Tommy. Ed è stata la cosa giusta da fare, perché stare in mezzo ad altri bambini lo ha aiutato davvero tanto». Tommaso è molto socievole, ha voglia di comunicare con gli altri, anche fuori dalla sua famiglia. Ed è questo il suo primo punto di forza, sul quale lavorare. «All’inizio del 2020, sempre su indicazione della neuropsichiatra, siamo arrivati al Centro Benedetta D’Intino. Ed è lì che ho capito la differenza fra “comunicare” e “far capire”. All’inizio, devo ammetterlo, ero un po’ perplessa, perché ho sempre pensato di conoscere Tommaso così bene da poter “interpretare” le sue necessità. Lui, però, non ha bisogno di questo. Lui ha bisogno di “dirci” quali sono davvero i suoi desideri. E per farlo, può anche andare oltre le parole. Si parte lentamente e all’inizio non è così facile comprendere. O almeno, non lo è stato per me» «I primi simboli su cui Tommy ha lavorato sono stati quelli di “basta” e “ancora”. E io mi chiedevo perché, visto che sapevo già “capire” quei messaggi. Il fatto che io “capissi” se Tommaso volesse ancora qualcosa oppure no, però, non significava necessariamente che lui me lo stesse comunicando davvero. Me ne sono resa conto il giorno in cui mi ha detto – e non mi ha solo fatto capire… – che voleva andare in piscina. Eravamo in un contesto che rendeva difficile “interpretare”. Il suo desiderio, però, era quello. Lui voleva dircelo. E ci è riuscito. I simboli non sono fatti solo per sostituire le parole ma, a volte, anche per far usci-re qualche parola che, altrimenti, rimarrebbe nascosta. Soprattutto quando si tratta di sentimenti. Tommaso ci ha sempre dimostrato che ci vuole bene, che ci ama, ma ora può anche dircelo. E quando lo fa, nei suoi occhi c’è così tanta gioia, così tanta soddisfazione». «Chi non si trova a vivere una situazione come la nostra forse non può capire davvero quanto per noi sia stato bello scoprire di poter comprendere davvero le sue aspirazioni, la sua volontà, i suoi sogni. Da quel momento, ci si è aperto un mondo. E soprattutto, il mondo si è aperto a Tommy…”.
Perché Tommy, finalmente, ha avuto a sua disposizione gli strumenti per esprimersi e sentirsi parte della realtà che lo circonda. A cominciare dalla scuola. «I primi a imparare come utilizzare la Caa (la Comunicazione aumentativa alternativa, n.d.r.) e a usare la sua “collana” di simboli sono stati i suoi compagni di classe. Anche gli insegnanti, però, si sono subito messi in gioco per sostenerlo nell’esprimere tutte le sue potenzialità. Poi, pian piano, i simboli di Tommy sono usciti dalla scuola e oggi, nella cittadina in cui viviamo, lui riesce a comunicare attivamente con tutti. Io sono felice che si sia creata una comunità consapevole e inclusiva che ha saputo accogliere mio figlio e credo che, per tutti noi adulti, la lezione più importante che ha saputo darci Tommaso sia stata quella di capire l’importanza di sapersi fermare per ascoltare davvero la persona che si ha di fronte. Certo, la strada è ancora lunga e il lavoro da fare è tanto. Mi capita di incontrare genitori in difficoltà che non sanno spiegare ai loro figli perché Tommy al posto delle parole usi i simboli».
«In passato, il loro imbarazzo mi feriva e mi faceva arrabbiare. Poi, però, mi sono accorta che a Tommaso non importava e allora ho deciso che non importava nemmeno a me. Anzi, sono contenta quando posso essere io a spiegare ai bambini chi è Tommy e come si può comunicare con lui».
«Per i più piccoli è tutto più semplice. Lo è stato anche per Diego, l’altro nostro figlio. Con Tommy il rapporto è stato subito naturale e ora che sta crescendo comincia a essere molto protettivo nei suoi confronti. A dire la verità, qualche volta devo essere io a “proteggerlo” dal fratello maggiore, perché Tommaso ha un carattere molto forte. Anche questo, però, fa di lui il bambino che è. Perché la sua strada sarà sempre in salita, è inutile negarlo. E avere forza di carattere non potrà che aiutarlo. Come tutti, anche noi, abbiamo aspettative, progetti. Se anche le cose non dovessero essere come ci eravamo immaginati, non è detto che debbano andare per forza male. Ci saranno sempre margini di possibilità. Perché “mai”, come ci dice sempre Tommy, non esiste».
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Dare voce a chi non può parlare. Da 30 anni, è questo l’obiettivo del Centro Benedetta D’Intino, nato a Milano nel 1994 per volontà di Cristina Mondadori in memoria di Benedetta, la sua prima nipote, scomparsa prematuramente. Da subito, il suo obiettivo è stato quello di dedicarsi ai bambini “maltrattati dalla vita” e l’incontro con la neuropsichiatra infantile Aurelia Rivarola l’ha spinta a dedicare il suo impegno in particolar modo alla disabilità comunicativa grave e al disagio psicologico. Ogni anno, al Centro – che si avvale di un’équipe multidisciplinare formata da professionisti specializzati – trovano assistenza circa 400 bambini e ragazzi, insieme alle loro famiglie, che sono parte importante nei percorsi di cura. I settori di intervento sono due. La Psicoterapia, che offre un supporto psicologico per affrontare traumi per situazioni di disagio. E la Comunicazione aumentativa alternativa (Caa), che si occupa di bisogni comunicativi complessi e che prevede anche un programma specifico per l’autismo. Il Centro Benedetta D’Intino è stato il primo in Italia a dedicarsi interamente allo sviluppo della Caa, una pratica clinica che si fonda su un insieme di conoscenze, tecniche, strategie e tecnologie che facilitano e aumentano la comunicazione in persone che hanno difficoltà a usare non solo il linguaggio orale e la scrittura, ma spesso anche le modalità non verbali, come i gesti, lo sguardo, la mimica. Nei bambini seguiti al Centro la disabilità comunicativa è associata a patologie diverse quali, per esempio, paralisi cerebrali infantili, malattie genetiche e metaboliche, encefalopatie degenerative, disturbi dello spettro autistico. La Caa li aiuta cercando per loro linguaggi adatti alle loro specifiche competenze, attraverso il potenziamento delle abilità presenti, la valorizzazione delle modalità naturali e l’uso di quelle speciali. Con l’obiettivo – perseguito anche attraverso la promozione di una cultura sempre più ampia sulla disabilità comunicativa di donare a tutti i bambini la possibilità di esprimersi ed essere compresi nella loro unicità, per essere parte della società e raggiungere la miglior autonomia possibile. Attraverso la forza di una comunicazione che è già in loro. E che a volte può anche prescindere dalle parole.