Domenicale, 19 gennaio 2025
La gola come peccato e questione economica
la gola come peccato e questione economicaAlfabeto dell’uomo. Nel suo nuovo libro, il cardinale Ravasi racconta vizi capitali e virtù teologali e cardinali. In anteprima, pubblichiamo le pagine sulla gola, fra citazioni di san Paolo, Goldoni, Fromm e del TalmudSul numero del 12 novembre 1850 di una rivista letteraria tedesca il filosofo Ludwig Feuerbach pubblicava una frase che sarebbe diventata un motto a prima vista scandaloso: «L’uomo è ciò che mangia». In tedesco, poi, la frase era suggestiva per l’assonanza: Der Mensch ist («è») was er isst («mangia»). In realtà, questa affermazione, al di là della sua brutalità materialista, contiene una verità umana significativa. Infatti, il cibo in tutte le civiltà è un grande simbolo di comunione tra le persone.Attraverso esso si comunica agli altri la gioia e il lutto, l’amore e persino l’odio (si pensi agli avvelenamenti). Anche ai nostri giorni le nascite e le nozze sono celebrate con banchetti festosi; solennità, ricevimenti, convegni sfociano in cene di gala, così come si consumano pranzi di lavoro e, in molte culture, si accompagna la perdita di persone care con pasti funebri. Ora, poi, sono diventate quasi un’ossessione le infinite trasmissioni televisive di gastronomia o di masterchef… Non per nulla uno dei più famosi cultori del fenomeno sociale del cibo, il magistrato ottocentesco Anthelme Brillat-Savarin, osservava che «gli animali si nutrono, l’uomo mangia, il saggio pranza».È da notare che l’èra messianica nella Bibbia è raffigurata sotto l’immagine festosa di «un banchetto di grasse vivande, di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati» (Is 25,6). Nel rituale del tempio di Gerusalemme era contemplato «il sacrificio di comunione (o pace)» che comprendeva il pranzo con alcune carni della vittima immolata. Cristo stesso – che amava sedersi a mensa non sempre in buona compagnia (pubblicani, peccatori, prostitute) così da correre il rischio di essere bollato come «un mangione e un beone» (Mt 11,19) – ha affidato al segno del pane e del vino dell’eucaristia la sua presenza permanente in mezzo a noi, e nelle sue parabole non esitava a sceneggiare banchetti, soprattutto nuziali.In sintesi, dobbiamo riconoscere che il cibarsi non è solo un atto fisiologico ma anche un gesto simbolico e, in questa linea, lo spreco alimentare di fronte a una folla di affamati che popolano tante terre non è solo una questione economica ma anche un peccato e un atto infame. Siamo, infatti, coinvolti in un meccanismo perverso dominato dal consumismo. Aveva ragione il filosofo tedesco Erich Fromm quando nella sua opera più nota, L’arte di amare (1956), definiva così la felicità dell’uomo moderno: «guardare le vetrine e comprare tutto quello che può permettersi, in contanti o a rate».Per questa via si passa dal nutrirsi, che è una sorta di virtù necessaria, all’area più oscura di un vizio capitale, emblematicamente rappresentato dalla gola. È curioso notare che nell’ebraico biblico nefesh significa sia «gola» sia «anima». Lo si intuisce nell’avvio di un celebre Salmo, il 42: «Come il cervo anela ai corsi d’acqua, così la mia nefesh (gola/anima) anela a te, o Dio. La mia nefesh ha sete del Dio vivente». Come dicevamo, il cibo e la bevanda sono un segno di amore e di fede, ma possono essere la base del vizio dell’avidità golosa.«La gola è un vizio che non finisce mai, ed è quel vizio che cresce sempre quanto più l’uomo invecchia». Così parla Rodolfo, il protagonista della commedia La bottega del caffè (1750) di Carlo Goldoni. Che la società attuale non sia in armonia col cibo, lo dimostra l’ossessione della dieta e della bilancia, con una frenesia tale che può trasformarsi anche in patologia medica: pensiamo al dramma antitetico della bulimia e dell’anoressia che, in realtà, spesso sono una forma tremenda per lanciare messaggi esistenziali di solitudine, di insicurezza, di disistima, di abbandono.Noi, però, ci collochiamo nell’ambito morale, denunciando appunto il quinto dei cosiddetti vizi «capitali», che ha come simbolo la gola. Per quelli che usano disordinatamente il cibo e le bevande (si pensi al coma etilico di certi giovani, dopo una notte folle) vale l’asserto di san Paolo: «La perdizione è la loro fine perché hanno come dio il loro ventre» (Fil 3,19). A livello non solo fisico vale, perciò, quanto si legge nel libro delle tradizioni giudaiche, il Talmud: «La gola ha ucciso più uomini che la fame».Frase che è diventata il nostro proverbio «Ne uccide più la gola che la spada». Divertente è la forma spagnola di questo detto: «Más mató la cena que sanó Avicenna». Il celebre medico arabo dell’XI secolo Avicenna, ossia la medicina, guarì meno persone di quante ne eliminò la crapula. Ancora san Paolo ammoniva: «Comportatevi onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a gozzoviglie e ubriachezze, non fra impurità e licenze, non in contese e gelosie» (Rm 13,13). Il papa san Gregorio Magno ricordava, sulla scia dell’Apostolo, che la gola ha cinque figlie: la sciocca allegria, la scurrilità, la chiacchiera, l’impurità, l’ottusità della mente.La Bibbia a questo proposito ci offre molti spunti a partire da Esaù, il figlio del patriarca Isacco che, dopo una battuta di caccia, non sa controllarsi per la fame e al fratello minore Giacobbe urla la sua voglia della minestra di lenticchie da lui preparata. Sappiamo tutti come andò a finire, con la perdita del diritto di primogenitura (si legga Gen 25,29-34). Veemente è lo sdegno del profeta Amos contro le orge dei membri delle alte classi di Samaria che «sdraiati su divani d’avorio, mangiano gli agnelli del gregge e i vitelli delle stalle. Canterellano al suono dell’arpa, vogliono gareggiare con Davide negli strumenti musicali, bevono vino in larghe coppe, si profumano coi balsami più raffinati» (6,4-6). A questi banchetti s’associano anche le principesse, simili a «vacche di Basan: opprimono i deboli, sfruttano i poveri e ai loro mariti dicono: “Porta qua, beviamo!”».Una scena analoga è ripresa quasi dal vivo anche da Isaia, con persone «stordite dal vino»; ma nel clamore della festa irrompe all’improvviso «un inviato del Signore, un uomo potente e forte» che strappa dalle loro teste i diademi di fiori e li calpesta. È il simbolo del giudizio di Dio che usa come suo strumento di condanna il re assiro Sargon II che distruggerà Samaria nel 721 a.C. (Is 28,1-3).