Robinson, 19 gennaio 2025
Intervista a Luc Merenda
Bisognerebbe chiederlo a Quentin Tarantino cosa si nasconde sotto un vecchio attore la cui stagione da protagonista ha provocato l’ammirazione del regista delle Iene. Cosa è stato il genere, definito con qualche licenza, “poliziottesco”, con quella galleria di maschere che comprende attori straordinari come Mario Adorf, Gastone Moschin, Tomas Milian, Adalberto Maria Merli, Henry Silva e, ovviamente lui, Luc Merenda, che nonostante i suoi 81 anni conserva una straordinaria verve con cui elettrizza il suo passato. Luc vive a Roma in una casa appollaiata vicino a una delle piazze più popolari di Trastevere.
Che nome è Merenda?
«Origini italiane. Un cognome come un altro. Non l’ho inventato. Si pronuncia con l’accento sulla a».
Dove è nato?
«Non lontano da Parigi, ma ho vissuto l’infanzia e l’adolescenza ad Agadir, in Marocco. Ci trasferimmo laggiù perché mio padre si era invaghito di quelle terre che aveva conosciuto durante la guerra. Ci stabilimmo con tutta la famiglia: mia sorella, io, lui e mia madre».
Un ricordo di quel periodo?
«Il duello con un montone, una specie di prova iniziatica. Poi la bomba che esplose in un ippodromo, ci stavo per rimanere secco. Mio padre decise di mandarmi in Francia. Ho studiato in vari collegi dai quali venivo espulso per indisciplina. Ho lavorato con qualche successo nel campo della pubblicità e poi della moda».
Nella moda cosa faceva?
«Il modello, soprattutto per Pierre Cardin».
Com’era l’ambiente?
«Nevrotico e narcisista. Troppe attenzioni maschili. Sono della vecchia scuola: senza consenso ciascuno deve tenere le mani nelle proprie tasche».
Poi c’è il cinema.
«Il cinema, già».
Le ha dato soldi e riconoscibilità.
«Dà e toglie».
Il periodo di successo in Italia fu con il “poliziottesco”.
«Ma no, non solo in Italia, in Francia divenni famoso con due serie televisive. E poi altri film di genere diverso dal poliziesco hanno riscosso successo».
Ha una definizione del successo?
«È come la kriptonite: più sei esposto, più stai male e ti indebolisci».
Tradotto?
«Le star sono dei disastri umani».
Qualche nome?
«È una lista lunga. Preferisco soprassedere».
So che non ha mai amato uno come Alain Delon.
«Si credeva il Padreterno».
Non gli mancavano i numeri.
«Il solo film in cui sembra notevole è La prima notte di quiete di Zurlini. Fu tutto merito del cappotto. Un film di una bellezza imprevista, almeno per Delon».
Quelli con Visconti non erano male.
«Visconti voleva un giovane bello. E lui era entrambe le cose».
Visconti lo ha conosciuto?
«Andai a casa sua, in via Salaria a Roma. Fu Enrico Lucherini a organizzarmi l’incontro. Stava preparando Ludwig. Per il ruolo principale aveva scelto Helmut Berger. Ebbi l’impressione che il cast fosse completo».
Visconti le fece la corte?
«No, nell’ora che passammo insieme fu estremamente corretto».
Non le propose nessuna parte?
«La sola cui potevo aspirare era quella dell’amante del Re. Ma aveva dato il ruolo a Marc Porel, su insistenza di Delon che lo considerava il suo pupillo».
Con Porel un po’ vi somigliavate.
«È vero, e lo trovavo un bravo attore. Lasciato morire da solo a Casablanca».
All’epoca di Ludwig lei aveva già dei film alle spalle.
«Avevo esordito nel 1970 con un film in cui interpretavo un agente segreto, OSS 117. Era tratto da una serie di romanzi di successo».
La risposta francese a James Bond.
«La saga era nata prima di 007. Ovviamente senza lo stesso successo. Anni dopo Giuseppe Patroni Griffi mi propose di girare un Bond che invece di essere circondato da donne bellissime era attorniato da maschi stupendi».
Come reagì?
«Ero incuriosito: James Bond omosessuale, perché no? Non se ne fece niente. Troppo osé, troppo in anticipo sui tempi. O forse troppo ridicolo».
Dopo OSS 117 che accade?
«Marcel Carné mi chiamò per una parte in Inchiesta su un delitto della polizia, in seguito riuscii a entrare nel cast di Le 24 Ore di Le Mans».
Il film con Steve McQueen.
«Venni scelto per guidare in gara una Ferrari. Il regista inizialmente era John Sturges, quello per intenderci dei Magnifici sette e La grande fuga. Fu lui a volermi per la parte del rivale. McQueen si oppose: “Buono per lui ma non per me”, sentenziò. La produzione decise di farci prendere una pausa. Al ritorno sul set, Sturges se ne era andato, sostituito da Lee Katzin: lo chiamavano “signor sì” e l’aveva voluto McQueen. Il mio ruolo si ridusse a un’apparizione».
Quell’anno lavorò, con un cast prestigioso, anche a Sole rosso.
«Girammo quasi tutto il film in Spagna nel 1971. Altra delusione. Ma cast notevole: Ursula Andress, Toshiro Mifune, Charles Bronson e…».
E?
«Alain Delon. Il regista, Terence Young, era incerto se prendermi».
Perché?
«Me lo spiegò nella sua roulotte prima di una ripresa: “Delon è competitivo, ci sarebbero problemi sul set”».
Gli altri del cast com’erano?
«Mifune era un uomo tranquillo. Viveva appartato. Come se la sua testa fosse rimasta in Giappone. La Andress era deliziosa e ingenua, il successo del film con Bond non l’aveva cambiata. Bronson un orso, parlava pochissimo. Si era portato i cinque figli e la moglie. A pranzo e a cena mangiava quantità enormi di cibo. Gli dissi: “Charles a tavola non hai rivali”. “È tutta colpa della fame”, rispose. Non si dava delle arie. Veniva da una lunga gavetta».
Per tornare a McQueen, poi come finì?
«Ricordo che durante una pausa confessò che avrebbe dato diecimila dollari in cambio di un titolo di studio. Commentai che neanche per una cifra doppia glielo avrebbero consegnato. Lo rividi poi a Hollywood».
Lei che ci faceva a Hollywood?
«Ero andato con la mia prima moglie e una nostra amica per incontrare Paul Kohner, che gestiva attori e registi famosi tra cui Billy Wilder. Kohner ci regalò dei biglietti perla serata degli Oscar».
Fu lì che rivide McQueen?
«No, fu durante un pranzo a Beverly Hills. Accompagnavo la mia amica. Sedeva a un tavolo dietro di noi. La mia amica ci presentò. Non sapeva che avevamo lavorato allo stesso film. McQueen mi guardò senza riconoscermi. Erano trascorsi alcuni anni. Gli rammentai di Le Mans. Non reagì. Allora, con una punta di cattiveria gli chiesi se era riuscito a comprarsi il titolo di studio».
E lui?
«Anche in questo caso restò muto. Solo a quel punto compresi che era molto malato. Fu una delle sue ultime apparizioni. Mi sentii uno stronzo».
A Hollywood cosa concluse?
«Hollywood è un mondo parallelo. Non per gente umana. Conobbi molte persone e alla fine mi fu proposta la partecipazione a un serial televisivo. Era un impegno lungo. Passai di colpo dall’euforia alla prostrazione. Fui preso da una crisi di panico e me ne tornai in Italia».
Perché ha scelto l’Italia per vivere?
«A un certo punto sono andato via e tornato in Francia, ma l’Italia è il Paese dove non mi sono mai sentito solo».
Sembra una persona molto sicura.
«Nascondo bene le mie fragilità, un attore non può permettersi di esporle. Ma solo un imbecille è sicuro di sé».
Quale è stato il primo film che ha realizzato qui?
«Così sia, un western girato sulla scia del successo di Bud Spencer e Terence Hill. Era il 1972. Non credo sia finito nella storia del cinema. Ma ebbe una discreta accoglienza».
L’anno successivo girò il primo poliziottesco.
«Mi chiamò Sergio Martino per Milano trema: la polizia vuole giustizia».
Il film riscosse un grande successo di pubblico.
«Inaspettato. Al momento non reagii, lo vissi. Non sentivo che la mia vita cambiava, ma che qualcuno me la stava cambiando».
Intende che non era lei a gestirsi?
«Entravo in un gioco che controllavo solo in parte».
Comunque iniziò la serie dei polizieschi.
«Non proprio. Quell’anno avevo girato Le monache di Sant’Arcangelo, una storia di badesse scatenate, ambientato nel Cinquecento, facevo il ruolo di inquisitore. Poi feci il sequel di Così sia e altri film. Milano trema mi fu proposto perché Sergio Martino mi aveva già scelto per I corpi presentano tracce di violenza carnale. Nel 1974 girai Il poliziotto è marcio. Regia di Fernando Di Leo».
Tarantino ha definito Di Leo un grande del cinema. Che ricordo ha di lui?
«Un signore nella vita e un talento sul set, capace di sfruttare al massimo le poche risorse a disposizione. Gli sono anche grato perché nel film lavorai con Salvo Randone e Vittorio Caprioli. Entrambi grandissimi».
Altri grandissimi?
«Tognazzi e Villaggio. Paolo era un genio, solo un genio poteva creare Fantozzi. Ho collaborato con entrambi».
Ha lavorato anche con Tomas Milian.
«Nel 1975 girammo La polizia accusa, nel 1977 La banda del trucido. Milian aveva studiato recitazione a New York».
Forse non gli servì per interpretare Er Monnezza.
«Prima che a Milian, Umberto Lenzi offrì a me il ruolo del “Monnezza” ne Il trucido e lo sbirro. Rifiutai non per snobismo, ma perché del film c’era solo la traccia di una paginetta. Dove si descriveva un volgarissimo ladruncolo che si trasforma in un collaboratore della polizia. Troppo poco per impegnarmi. Quanto a Milian, non ho mai avuto dubbi sulla sua bravura. Ma era una mente complicata».
Tra le produzioni che rifiutò c’è anche Sandokan.
«Un errore, anche perché il copione era bello e Sergio Sollima un gran professionista. Ma nel 1976 ero straimpegnato e non avevo voglia di fare televisione. Come attore di cinema la consideravo un ripiego».
Come attore di cinema a un certo punto entrò in crisi.
«Mi ero stancato del genere poliziesco. Non volevo finire in una gabbia. “Luc” mi diceva Sergio Martino “ma che stai a fa’? Tu ne devi gira’ almeno 30 film, poi te compri il villone, un paio de levrieri afgani e solo quando ti offrono il trentunesimo poliziesco dici no. Stai solo al quinto”».
Pentito della scelta?
«No, assolutamente. Tornai in Francia. Ero mentalmente a pezzi. Sono rinato con l’antiquariato».
Le è mancato il cinema?
«Sono stato nel cinema sempre con un piede dentro e l’altro fuori. È un luogo dove è difficile trovare lealtà e solidarietà. Malgrado ciò mi è mancato. Quello che non mi è mancato è il telefono che a lungo non ha suonato».
Che attore ritiene di essere o essere stato?
«Mi sono spesso detto che quando avrei fatto il film giusto avrei smesso».
Qual è un film giusto?
«Quello che ha dietro un regista con le palle».
Tipo?
«Visconti. Un maestro per il quale avrei lavorato gratis. Riuscì a far ballare Helmut Berger, che aveva la mobilità di una sedia, quasi come Nureyev».
Un regista con cui lavorò fu Gian Pietro Calasso.
«Con lui girai Patto con la morte, poi non l’ho più rivisto. Andò negli Usa, schifato dalle produzioni italiane».
Sapeva che era il fratello dell’editore Roberto?
«No, l’apprendo ora. Ma era un uomo intelligentissimo, generoso di complimenti. Mi disse che aveva lavorato per il teatro, scritto saggi di filosofia e che ormai quarantenne era stanco di sopportare gli intrallazzi dell’Italietta».
È un Paese dove è tornato a vivere.
«Mi piace, in fondo è un grande set senza un vero regista».
Ho letto una sua dichiarazione.
«Quale?».
“Il sedere è il riflesso dell’anima”.
«Bisogna diffidare da quelli che ce l’hanno schiacciato verso il basso».
Ha più rimpianti o più rimorsi?
«Qualcuno ha scritto: “Il rimorso è perché l’ho fatto, il rimpianto è perché non l’ho fatto”. Ecco una buona risposta».
Che cosa le resta del mondo del cinema?
«Il bisogno vitale di sognare. È quello che mi resta».