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 2025  gennaio 19 Domenica calendario

Opere capaci di raccontare i maschi


La questione dell’essere maschi riguarda senz’altro l’educazione, il mondo dove si cresce e i secoli di storia che pesano sulle spalle. Ma se abbiamo amato la letteratura, allora ne siamo stati condizionati. Personaggi e opere sono penetrati nelle nostre vite, ci hanno invaso con lo strumento della bellezza. 

Le nostre vite sono infatti un accumulo di esperienze personali più esperienze collettive più quello che abbiamo letto e visto. Il tentativo di analizzare il maschile dentro alcune opere è quello di mettere in luce, in modo personale e opinabilissimo, ciò che abbiamo interiorizzato e trattenuto di quel germe. Se il maschile è inteso come potente, arrogante, violento, sopraffattore, egoista e famelico, allora ve ne sarà traccia anche nelle opere che abbiamo amato – come diceva Eduardo: mi preoccupa di più un morto sulla scena che un morto vero; perché se c’è la rappresentazione di un morto, vuol dire che quei morti sono già stati tanti da doverli raccontare.

E di conseguenza quelle opere ci avranno restituito una legittimazione della maschilità, non importa se involontaria, che ha contribuito a consolidare la cultura virile. Questa ipotesi è poco discutibile, quasi pleonastica.

Uno scrittore può scrivere soltanto libri personali. E quindi ho scelto delle opere che mi stanno a cuore, ognuna per un motivo diverso, ma tutte anche per la capacità di raccontare chi sono i maschi. In pratica, però, se si prova a fare un gioco (io ci ho provato), e si decide di aprire a caso qualsiasi libro di narrativa (italiana o straniera) di qualsiasi secolo, fino a oggi, alla ricerca delle prove, le prove si trovano sempre. È matematico. Si potrebbero analizzare migliaia di opere per rintracciarne gli assunti teorici del maschile.

(Ho deciso però di scegliere solo scrittori, non scrittrici: mi sarebbe piaciuto scrivere anche, per esempio, di Nino Sarratore dell’Amica geniale di Elena Ferrante, considerato un esemplare di maschio molto interessante perché nasconde la sua bestialità sotto il vestito intellettuale; e mi sarebbe piaciuto scrivere anche di un altro terribile e bellissimo personaggio, Il Pellicano di Caro Michele di Natalia Ginzburg. Ma mi interessava indagare come i maschi hanno trattato i personaggi maschili: volevo lo sguardo dei maschi sulla realtà).

«Il vero eroe, il vero soggetto, il vero centro dell’Iliade è la forza. La forza che è usata dagli uomini, la forza che sottomette gli uomini, la forza davanti alla quale la carne degli uomini si ritrae. L’animo umano appare continuamente trasformato dai suoi rapporti con la forza, travolto, reso cieco dalla forza di cui crede di poter disporre, piegato sotto la morsa della forza che subisce. Coloro che avevano sognato che la forza, grazie al progresso, appartenesse ormai al passato, hanno potuto vedere in questo poema un documento; coloro che sono capaci, oggi come un tempo, di individuare la forza al centro dell’intera storia umana, vi trovano il più bello e il più terso degli specchi».

Questo è l’incipit del breve ma fondamentale saggio di Simone Weil sull’Iliade: suggerisce che c’è di più; che la letteratura è fondativa del mito del maschio.Nei libri che ho scelto di raccontare, tutti fanno la guerra, si incazzano, diventano furiosi, litigano, sono gelosi, minacciosi, e usano la forza in modo esplicito, picchiando, violentando. Ma sono anche violenti in modo più moderno, quindi occultato, passivo: sono lamentosi e recriminatori, e finiscono per soffocare le donne in altro modo. E poi sono continuamente sospettosi, e questo li rende sfinenti (un’altra forma di violenza). Il racconto semplicemente corrisponde a quello che siamo (stati).

Nella mia vita, però, come nella vita di molti maschi, c’è un’identificazione in questi personaggi; quello che posso ammettere è che, esprimendolo o castrandolo, mi sono sentito di volta in volta l’innominato, lo scolaro, il narratore che soffre per amore e intanto va a scopare, il violento, il geloso, il fragile, il lamentoso, il figlio che assomiglia al padre volendo essere diverso eccetera. Ho rivisto, ho interpretato, ho rafforzato, ho acconsentito ad alcune caratteristiche maschili.

Non ritratterò, né farò passi indietro, non rinnegherò. È un racconto che bisogna continuare a fare fino a quando corrisponde alla realtà; poi può darsi che ce ne saranno altri. Però non bastano le regole nuove, i linguaggi nuovi – e comunque non bisogna accontentarsi di raccontare quelli, bisogna continuare a raccontare maschi che fanno le guerre e che usano la forza, perché si fanno anche oggi le guerre e perché la forza, la sopraffazione, sono ancora qui.Non è una denuncia, questa; è soltanto una testimonianza dei fatti. La denuncia in letteratura è imbarazzante, se non stupida; chiede: non fatelo vedere più, non raccontatelo più. Inoltre bisogna diffidare di quelli che raccontano per poi dare un giudizio sommario e definitivo, che di solito vi sembra sia giusto, e lo è anche – del resto i giudizi sommari e definitivi si possono dare solo se si è sicuri che siano giusti. Ma non servono a nient’altro se non a seppellire. Invece bisogna raccontare e raccontare e raccontare, a prescindere che lo si faccia con coscienza o no. Perché certi racconti di altri secoli, a vederli ora, hanno lucidità assoluta su quello che ancora succede.La coscienza di essere trogloditi, sopraffattori, violenti, arroganti, egocentrici, ce l’abbiamo da un po’ di tempo – probabilmente non per merito di un’autocoscienza, ma alla fine comunque ce l’abbiamo. Eppure non ci ha fatto migliorare; o forse sì, però solo in superficie; non nella sostanza. Alla fine di questo percorso non posso dire: io non sarò come loro; ma posso dire: io sono come loro. Sono appunto possessivo e geloso, incazzoso, violento, arrogante, furioso eccetera. Ancora, in qualche modo.Ho cercato negli anni di scriverlo molte volte: il processo è lunghissimo – e i secoli passati dal Decameron a Via Gemito ne sono la dimostrazione più visibile.

«Son qui m’ammazzi» è una frase tra quelle indimenticabili della letteratura italiana, ed è pronunciata da una donna, Lucia, nel punto più estremo dello sfinimento e dell’arrendevolezza. È come se fosse la sintesi di ciò che il maschio ha prodotto con la sua professione di forza fin dall’Iliade. Ma non è tutto: Lucia, con quella frase, ottiene una reazione positiva (buona) nel terrorizzante personaggio maschile dell’Innominato. È come se Manzoni dicesse che la forza femminile, la capacità di produrre un risultato, stia nella concessione totale, nella resa a quella forza che ha di fronte. È quindi una frase spaventosa, estrema, e lo è maggiormente per il fatto che innesca una salvezza. Quasi, vorrei dire, è ciò che tutti i personaggi maschili desidererebbero sentirsi dire, cercherebbero di sentirsi dire. Oppure vorrebbero non sentirsi dire perché vorrebbero essere migliori di quello che sono; e i maschi progressisti e colti credono di essere già migliori di quelli che sono, credono di essere l’uomo nuovo.E invece è bene inchiodarci a quella frase, ancora. Del resto, lo ha scritto Carla Lonzi: «Noi neghiamo come un’assurdità il mito dell’uomo nuovo».

Ecco. Anche io.

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Ludovico Ariosto, Orlando Furioso

«Era un uomo saggio e stimato, e per amore ha perso la testa. Diventa furioso. E vuol dire: sia pazzo, sia arrabbiato. La furia e la follia, in nome dell’amore, del possesso, del dolore, sono da sempre due caratteristiche molto maschili, che rendono i maschi incontrollati e incontrollabili. E questa furia, sia che si esprima con una violenza controllata, ma che rende tutti quelli intorno terrorizzati, sia che si esprima in maniera incontrollata e finisce in cronaca nera, parte da questo Furioso».

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Alessandro Manzoni, I promessi sposi

«Sarebbe bello avere il tempo per dimostrare che il gruppo di personaggi di questo romanzo raccoglie tutte le strade possibili dell’essere maschio. Dall’arroganza di don Rodrigo alla pavidità di don Abbondio; la maschilità perfetta di Renzo, sempre rabbioso e mai risolutivo; la totale mancanza di senso pratico di don Ferrante («non prese nessuna precauzione contro la peste; gli s’attaccò; andò a letto, a morire, prendendosela con le stelle»), e l’oste che invece afferma: “Le azioni, caro mio: l’uomo si conosce dalle azioni”; fino a Gervaso, l’uomo delle nozze di Renzo e Lucia tentate con l’inganno e fallite, che rivela il segreto, perché solo un maschio ha la necessità e la vanità di far sapere: io c’ero e so come sono andati i fatti».

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Ippolito Nievo, Le confessioni di un italiano

«Carlo (e non soltanto lui, ma chiunque altro) soccombe davanti alla Pisana per tutta la vita perché la Pisana è una donna libera. E quindi esageratamente spiazzante per tutti, e per lui in particolare. Avrebbe voluto essere l’eroe di questa donna, in realtà è solo lo schiavo del desiderio per questa donna. Il desiderio lui dice che lo fa vivere da porco, il legame tra i due è talmente forte che in pratica accade: si uniscono, diventano amanti. In realtà, ciò che fanno è illegale; e quando si scopre che lui tiene nascosta in casa la Pisana, vanno per arrestarlo e lui se ne scappa».

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Giovanni Verga, I Malavoglia

«’Ntoni si rovina la vita definitivamente e se ne deve scappare. Il paese dice: vattene Malavoglia, ormai questa è la rovina della famiglia. Dovrà scappare perché ha ucciso per la roba, per la donna, per l’onore, per il disonore, per tutti gli elementi maschili che costituiscono il centro dei significati di Aci Trezza».

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Italo Svevo, La coscienza di Zeno

«Alla fine, in tono minore, Zeno ha ottenuto ciò che voleva quando è entrato in casa Malfenti la prima sera: sposare una delle figlie. E anche la famiglia Malfenti ha ottenuto che sposasse quella che avevano scelto loro. In queste pagine, Zeno esibisce tutte le caratteristiche del maschio, e lo fa in modo complesso, non semplificato: arroganza e fragilità non si combattono ma si alimentano; l’irrazionalità travestita da ponderatezza, altra combinazione esplosiva nei personaggi maschili (e nei maschi in carne e ossa); capacità di adattare le frasi sentimentali anche per altre interlocutrici».

Vitaliano Brancati, Il bell’Antonio

«Appena il maschio si sente fragile, percepisce la donna come un essere maschile, quindi arrogante, aggressivo, senza freni, che non si cura dei possibili no, ma è sfacciato e pressante. È come se la città fosse coperta da una nube di voluttà maschile, e se si sente un sintomo di diradamento, allora intervengono le donne a supportarne la quantità».

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Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo

«Se ne vergogna, ma quella spinta voluttuosa è talmente potente che come un elastico si tende verso i privilegi violenti del passato e ritorna alle soluzioni del presente: non aver nessun modo né diritto di soddisfare il proprio desiderio, ma avere almeno la possibilità di far entrare Angelica in famiglia, e tenerla vicino, tenerla ferma con la zampaccia, sentirsi dire “zione”, e guardarle i seni ormai maturi un attimo prima di morire. È anche questa la storia del quando don Fabrizio dice che il suo tempo è finito, e che è giusto che altri si occupino delle vicende della Sicilia e dell’Italia, sta dicendo che il suo tempo è finito anche come maschio».

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Beppe Fenoglio, Una questione privata

«È questo che vuole dire Milton, che vuole dire Fenoglio: la guerra non ha intaccato nulla, non ha reso Milton più forte, non ha cambiato la proporzione delle cose dentro di lui. Non lo ha fatto diventare adulto, non lo ha reso uomo. Si ritiene che la guerra faccia questo, ma la guerra non fa questo. Prende dei ragazzi, li mette dentro l’orrore e l’eroismo, dentro il sacrificio e la forza, dentro la difesa delle idee e della patria, in questo caso dentro la riconquista della democrazia. Ma essi agiscono e combattono e uccidono e muoiono da dentro la pochezza della loro vita, di quello che sono. Restano ragazzi, altro che adulti. E tutto il coraggio che ha trovato Milton in questo romanzo, arriva dalla disperazione d’amore, la stessa che aveva prima di diventare partigiano; dalla gelosia, dal tormento di voler sapere la verità. La guerra non intacca i desideri di un ragazzo, i suoi sogni e il suo dolore. Li interrompe, per un periodo; o, se va male, per sempre».

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Dino Buzzati, Un amore

«E così, ormai alla soglia dei cinquanta anni, Antonio Dorigo ha risolto la sua esistenza: un lavoro di soddisfazione, e la sconfitta della timidezza che lo rendeva inferiore, con l’amore a pagamento. Tutto è stato messo a posto, secondo lui. Buzzati, poi, attraverso il suo personaggio, fa un ritratto preciso e spietato dei maschi, che sembra sempre un ritratto “dell’epoca”, ma in verità continua a essere sempre attuale. Insieme alla storia di Antonio, si occupa direttamente anche del desiderio maschile, smascherandolo. Nel romanzo ci sono molti brani sull’ipocrisia del maschio che non dice la verità, e cioè “se incontra anche per la strada una ragazza sconosciuta immediatamente pensa una cosa sola: è desiderabile? mi piacerebbe andarci a letto?”».

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Domenico Starnone, Via Gemito

«Via Gemito comincia proprio con una frase molto dura del padre, il quale ha affermato: io tua mamma l’ho picchiata solo una volta. E lui, l’io narrante, si rende conto che è una menzogna talmente grossa che non vuole averci a che fare. Il libro invece lo costringe ad averci a che fare. Ecco, appunto, Federí è il personaggio maschile, violento, geloso, orgoglioso della virilità, arrogante, volgare, spaventoso per tanti aspetti; ed è il personaggio costante fino al tempo presente. È come se stessimo dicendo che dai tempi del Decameron a oggi, il maschio è rimasto sempre lo stesso».