la Repubblica, 19 gennaio 2025
Verso i 50 anni di Repubblica
Le parole di Eugenio Scalfari, cito a memoria, furono più o meno queste: Non esiste progetto politico, compresa la linea di un quotidiano, che non debba accompagnarsi ad un valido progetto culturale. Tra le tante novità introdotte da Repubblica in quel gennaio di mezzo secolo fa, ci fu anche questa. Le novità furono davvero tante; le firme degli autori in un bel grassetto, le colleghe che finalmente uscivano dai temi detti “femminili” nei quali erano di norma state relegate. C’era lo spacchettamento del “pastone” politico che per molto tempo aveva condensato in un unico pezzo il senso della giornata; il suo autore, un collega sperimentato, era chiamato il “pastonista”. Con Repubblica la politica venne per così dire “sceneggiata”, si puntava sui retroscena, sulle interviste confidenziali, si voleva mostrare al lettore da quali reali motivazioni l’azione dei partiti e del governo fosse mossa.C’era il formato piccolo con la sua insolita impaginazione a fasce in prevalenza orizzontali (progetto di Sergio Ruffolo) e c’era la cultura. Qui si torna alle parole di Scalfari citate sopra. Se il formato era piccolo lo spazio della cultura doveva essere grande, dunque, abolizione della tradizionale Terza Pagina e collocazione al centro dello sfoglio su due pagine intere, il cosiddetto “paginone”. Lo spostamento era di per sé una dichiarazione d’intenti, i temi culturali che il giornale avrebbe trattato dovevano avere massima visibilità e nello stesso tempo rappresentare una pausa nella narrazione delle varie cronache: interni, esteri, cronaca nera, cronaca bianca eccetera. Ricordo il direttore che passava il dorso della mano su quelle due pagine, quando gli parevano ben riuscite, con un gesto quasi amorevole.Quella cura veniva da una tradizione nella quale la simbiosi tra politica e cultura era stata ritenuta a lungo necessaria. L’Espresso di cui Repubblica era figlia, il settimanale Il Mondo di cui era nipote. Ma andando ancora più indietro, veniva dalla tradizione illuminista dei cafés littéraires del XVIII secolo, quello dei Lumi, o dalla loro più recente versione casalinga della “terza saletta” di Aragno. Mentre scrivo queste righe mi rendo conto che il tempo psicologico che separa questo 2025 da allora è molto più lungo dei cinquant’anni che si contano sul calendario. Tutto è cambiato, tutto, molto rapidamente, continuerà a cambiare.Quando Scalfari volle raccontare la nascita del giornale e del gruppo che gli aveva dato vita, scelse di proposito per il suo libro un titolo fatuo, danzante: La sera andavamo in via Veneto. Tavolini da caffè in una delle strade più famose del mondo. In realtà il titolo coglie la doppia finalità di quei caffè e di quegli incontri: pettegolezzi e progetti, cronache e fantasie, piano bar e qualche passo di danza, burle ma anche accanite discussioni letterarie e politiche.Chi non ha memoria, sia pure indiretta, di quegli anni e di quelle persone, ignora quale importanza avesse allora la coesistenza di questi due termini, politica e letteratura, sia per i più informati rappresentanti politici, sia per alcuni giornalisti. Non era concepibile che un progetto di riforma non poggiasse su una seria ipotesi di scuola così come non era concepibile che si accedesse a un assessorato, a una carica parlamentare o di partitosenza una qualche preparazione di scuola.Il “paginone” di Repubblica era la rappresentazione giornalistica di questo modo d’intendere sia un giornale sia la politica. In pratica volle dire che il nuovo giornale, nonostante per quasi due anni apparisse una fragile imbarcazione, si assicurò molte delle migliori firme nei vari campi dell’arte, della critica, della cultura. In secondo luogo, Repubblica si presentò subito agli occhi di chi prese a leggerla con una coerenza di visione che spinse qualcuno a definirla più che un quotidiano un partito politico. L’intento, chiaramente derisorio, coglieva però proprio quella coerenza interna che teneva legate le sue varie sezioni, cultura compresa.Quale coerenza? La prima pagina del primo numero reca un’intervista di Scalfari all’allora segretario socialista Francesco De Martino. Il titolo però tirava subito in ballo il Pci: «Carte in tavola, compagno Berlinguer». Poi tutto velocemente cambiò; nel giro di sette mesi la segreteria socialista passò a Bettino Craxi (luglio 1976) e la linea di Repubblicada quel momento fu diversa, ancora più lo divenne dopo l’assassinio di Aldo Moro: stimolare il passaggio del partito comunista nell’area socialdemocratica europea convincendo la sua classe dirigente a sciogliere il soffocante abbraccio sovietico.La Repubblica divenne così d’obbligo in tutte le mazzette degli altri giornalisti, dei dirigenti pubblici e privati, spuntò dagli zaini di molti giovani e di molte donne. I temi lanciati sulle sue pagine cominciarono a rimbalzare negli interventi politici e in televisione. Scalfari era riuscito ad affermare il suo progetto. Significativo che quando cominciarono a uscire i supplementi di Storia della musica Repubblica toccò la tiratura di un milione di copie. Lo stesso accadde, quando cominciò a uscire il supplemento Venerdì, molto attento ai temi culturali e rimasto, da allora, uno dei migliori settimanali italiani.C’era una nota di snobismo, un’ombra d’altezzosità, nell’atteggiamento di Scalfari e di alcuni quadri del giornale? È possibile. Ricordo la venerazione collettiva per i principi dell’89, per quei Lumi che avevano davvero dato luce al mondo, ricordo le appassionate discussioni su Proust e la sua Recherche. Scrive Scalfari nel saggio già citato che quello sterminato romanzo era: «il testo per antonomasia, senza la conoscenza del quale l’appartenenza al gruppo restava largamente imperfetta».Ammettiamo che ci fosse una componente di snobismo (nel gergo di oggi: radical chic) forse preferibile però alla rozzezza di una visione politica capace di badare solo alle ondeggianti curve dei sondaggi.