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 2025  gennaio 19 Domenica calendario

Jennifer Loper da ragazza era un’atleta

Jennifer Lopez è Inarrestabile, come il titolo del suo nuovo film (dal 16 gennaio su Prime Video), che la vede nei panni di Judy, la mamma di Anthony Robles, che nel 2011 è diventato campione nazionale di wrestling con una gamba sola.
L’attrice non ha esitato un momento, come racconta alla stampa internazionale, a intraprendere questo viaggio doloroso ma necessario.
Un biopic dalle tinte forti, ma mai retorico, che i veri protagonisti hanno seguito e amato da vicino, come il produttore del progetto, Ben Affleck (ex marito di JLo).

Quanto ha inciso l’essere madre nella vita reale nell’interpretare questo ruolo?
«Ha fatto la differenza perché so che vuol dire volere il meglio per i tuoi figli e metterli davanti a tutto. Leggendo il copione ho capito che questa non è la storia di Anthony e basta ma anche quella di sua madre Judy, che lo ha reso l’uomo che è oggi».

Una star come lei che interpreta una madre con una vita complicata, così diversa dalla sua. Cos’ha provato?
«Mi fa più effetto sentirmi chiamare “star” perché sono una professionista che fa il suo lavoro, recitare, osservando i comportamenti umani e cercando di capirne le cause e le circostanze. Dopo cinque minuti che parli con me ti dimentichi dei film e degli album e la conversazione diventa estremamente umana, rilassata e personale».

Cos’ha reso speciale l’incontro con la «vera» Judy?
«Ci siamo capite al volo e lei non ha avuto paura di mostrare al mondo le sue parti più deboli, il che rende la sua parabola esistenziale un vero trionfo, oltre ovviamente alle difficoltà che ha dovuto affrontare. Tutti nella propria vita hanno “lotte” da sostenere e affrontare sul proprio ring. La fiducia che mi ha dato Judy, mi ha permesso di mostrarle».

C’è stato un momento nella vita in cui ha pensato di non farcela?
«Da ragazza ero un’atleta (correvo gli 800 e i 1500 metri) e sentivo nella mente la voce dei miei genitori che mi dicevano che potevo diventare qualunque cosa volessi, persino Presidente degli Stati Uniti. Ho sempre creduto a quelle parole, anche quando mi trovavo in difficoltà sia nelle situazioni più piccole, come la prima partita di tennis, che in quelle più grandi. La mia famiglia mi ha insegnato disciplina ed etica del lavoro, due valori che applico sempre».

Qual è stato il suo approccio alla disabilità nel film?
«A casa mia sono tutti tifosi di football e baseball ma non avevo esperienze dirette di disabilità, finché non ho incontrato Judy e mi si è aperto un mondo. Mi ha detto cos’ha provato la prima volta che il figlio ha fatto un torneo e di come gli adulti lo guardassero e i coetanei lo fissassero. Si è sempre sentita colpevole del fatto che il figlio fosse nato così, ma è sempre stata al suo fianco credendo in lui».

È vero che lei è una secchiona sul set?
«Sì, prendo appunti su appunti, sono un’attenta osservatrice e cerco d’incanalare quell’energia nella mia performance. Le prime volte che leggo il copione penso sempre di non farcela ma poi arriva quell’adrenalina che ti pervade e rassicura, in modo confuso ma efficace. Sono una persona molto istintiva».

Quale crede sia il messaggio più incisivo di «Inarrestabile»?
«Il fatto che c’è sempre speranza, il che rende il film e la storia una meraviglia. Si parla di diversità, di disabilità, di pregiudizi, di minoranze, ma alla fine se ci pensi è un film sulla famiglia che si trova davanti a ostacoli da superare a testa bassa, lavorando sodo e senza fermarsi».

Lei come lo fa?
«Capendo quali sono i miei punti di forza e puntando su quelli, piuttosto che su debolezze e cadute. Se hai vinto una volta puoi farlo ancora. Mi ripeto che sono forte, che valgo, che sono abbastanza anche quando come mamma devo fingere che vada tutto bene, cerco di essere rilassata e fiduciosa anche se dentro sto cadendo a pezzi».

Qual è la lezione più grande che le ha insegnato la vita?
«Sto ancora cercando di capire chi sono. Fare l’attrice mi aiuta perché entro in un ruolo, prendo le distanze da me stessa e divento un’altra persona. E poi rimetto i pezzi insieme, come in un processo di guarigione, ma c’è un trucco che ho imparato: mettere da parte il mio ego e lasciarmi guidare dalle storie in tutta la loro umanità».