Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  gennaio 19 Domenica calendario

Intervista a Edith Bruck

Edith Bruck, a 93 anni e mezzo e in sedia a rotelle – «ma posso alzarmi, sa? Mi ero rotta la gamba, ma ora va meglio, ora mi alzo» –, è una donna bellissima. Incomparabilmente più bella delle influencer rifatte dal chirurgo a vent’anni. Lei ne aveva tredici quando finì ad Auschwitz.
«l e prime parole che ci gridarono i soldati con i cani lupo ringhianti furono Rechts! e Links!, destra e sinistra. Mia sorella Adele, di quattro anni più grande, fu mandata a destra. Mia madre Berta e io fummo mandate a sinistra. Si avvicinò un soldato. Mi disse: vai a destra. Io mi avvinghiai a mia madre, non volevo lasciarla, però quello mi prese per l’orecchio, quasi me lo staccò, e mi trascinò via: “Rechts!”. Io piangevo disperata, ma quel tedesco mi stava salvando la vita. Quelli a destra andavano ai lavori forzati; quelli a sinistra direttamente nelle camere a gas. Quel soldato fu la prima delle cinque luci che si accesero nel momento più buio della vita».
Edith Bruck vive a Roma in via del Babuino, in una casa tutta corridoi, con il ritratto della suocera, la madre di Nelo e Dino Risi, e qualche oggetto curioso, come un topolino di pezza, di cui ci racconterà la storia. Undici anni fa, qui vicino, in via della Croce, dentro una gastronomia, si sentì chiamare alle spalle: «Tu sei Edith di Auschwitz!». Si girò, vide una donna dal cappotto verde, la riconobbe. La donna dal cappotto verde si intitola il suo romanzo, che ora La Nave di Teseo, la casa editrice guidata da Elisabetta Sgarbi, riporta in libreria per il Giorno della Memoria.
Signora Bruck, chi era quella donna?
«La mia kapò ad Auschwitz. Lager C, blocco numero 11. I vicini di casa qui a Roma la conoscevano, ma si rifiutarono di dirmi il suo nome. Con l’aiuto di mia sorella, che vive in America, l’ho ritrovato: Lola Heller».
Come si comportò con lei, quando vi ritrovaste?
«Cominciò una tortura reciproca. Lei mi aspettava sotto casa. Mi invitava da lei a prendere il tè, ma io non andai, temevo mi avvelenasse. Lei temeva che la denunciassi. Avevamo paura l’una dell’altra. Insisteva per vendermi il suo appartamento, con una grande terrazza su via Margutta, a metà prezzo. Poi, come era ricomparsa all’improvviso, all’improvviso sparì».
Che ricordo ha di Lola ad Auschwitz?
«Indossava un cappotto di tweed, uno di quelli che avevo visto nel mucchio dei nostri cappotti, quando venimmo spogliati al nostro arrivo. Auschwitz non era un campo di lavoro; era un campo di sterminio. Lei era un ebrea polacca, era stata deportata due anni prima di me. Per sopravvivere, si era messa al servizio dei tedeschi. E aveva dovuto disumanizzarsi. Sempre con il bastone in mano. Ci mettevano in riga, e se il mio piede sporgeva di pochi centimetri, giù bastonate. Ricordo un’altra kapò….».
Come si chiamava?
«Alice. Io piangevo per mia mamma, e lei mi rimproverava: “Smettila, finirai per irritare i tedeschi!”. Ma io volevo la mia mamma. Così un giorno lei, stanca del mio pianto, mi tirò per il braccio e mi disse: “Vieni, ti faccio vedere tua mamma”. Io ero felice perché pensavo davvero di ritrovarla, ma Alice mi mostrò il fumo che usciva dal camino: “Ecco dov’è tua madre: lì dentro. Era un po’ grassa? Allora è servita a fare sapone”».
Quando ha ritrovato la signora dal cappotto verde, per la legge avrebbe potuto denunciarla.
«Mi sono interrogata a lungo se farlo. Poi ho deciso di no. Io non odio nessuno, non so cosa sia l’odio. Quella donna aveva scelto di sopravvivere; e chi sono io per giudicare la sua scelta? Non dico che avesse venduto l’anima ai nazisti; di sicuro si era messa al loro servizio. Eppure era possibile sopravvivere ad Auschwitz anche senza perdere la propria umanità. Io ci sono riuscita».
In che modo?
«Mi avevano proposto di portare i messaggi tra una baracca e l’altra: allarme! Selezione! E fare la messaggera era una garanzia di sopravvivenza, perché i deportati ti pregavano di riferire loro notizie ai parenti negli altri blocchi, e in cambio ti davano un pezzetto di pane. Ma io rifiutai. Non volevo fare nulla per i tedeschi. Preferivo salvarmi l’anima».
Cos’era la selezione?
«Era quando arrivava Mengele».
L’angelo della morte.
«Magro, alto, pallido, severo. Volto sfuggente. Non diceva una parola. Indicava con il dito guantato di bianco le persone da eliminare: tu, tu e tu. Era il dito di Dio».
E voi?
«Eravamo bianchi come cadaveri, e le donne tentavano disperatamente di darsi un po’ di colore alle gote, per superare la selezione. Di solito si mescolava la polvere con un po’ d’acqua: era il nostro fondotinta. Poi qualcuna rubò dalla casa di un tedesco della carta arricciata rossa, di quelle con cui si decorano i mazzi di fiori, e la vendette pezzetto dopo pezzetto. Si strofinava la carta sulle guance, e le si colorava un poco».
Nel suo libro ci sono immagini molto crude.
«Un giorno mia sorella e io dovemmo portare un grande secchio pieno della merda dei prigionieri. Lei era più alta di me, così il secchio pendeva dalla mia parte. Sentivo la merda colarmi addosso, sul fianco, sulla coscia…».
Ad Auschwitz c’era anche Primo Levi.
«Non lo incontrai, ovviamente. Maschi e femmine erano separati. In quel campo sono passati milioni di esseri umani, hanno ucciso un milione di bambini. Ma con Primo Levi siamo rimasti in contatto fino all’ultimo giorno della sua vita, sino al suo suicidio».
Rita Levi Montalcini non credeva che Primo Levi si fosse davvero suicidato. Perché l’ha fatto, secondo lei?
«Perché portava Auschwitz dentro di sé. Passeggiavamo qui in via del Babuino, io gli mostravo le vetrine colorate, le immagini della vita, e lui si voltava a fissare il muro. Non si lasciava abbracciare, rifiutava ogni contatto fisico, anche solo il tocco. E alla fine diceva: “Si stava meglio ad Auschwitz”».
Perché?
«Perché sentiva gente che cominciava a dire che tutto questo non era successo. “Ti rendi conto”, mi ripeteva, “stanno già negando con noi vivi!”. Ora che le ultime voci, come la mia, si stanno spegnendo, lo diranno sempre di più. E sempre più persone lo crederanno».
Lei come si è salvata?
«Perché ero molto povera. Avevo già avuto molti no nella vita. I borghesi, i più favoriti nella vita civile, non reggevano il lager. Noi sì. I borghesi non sapevano come ammazzare i pidocchi, e morivano di tifo petecchiale».
Come si ammazza un pidocchio?
«Prendendolo tra due unghie, e spezzandolo, così. I più fragili erano gli uomini. Una volta, durante le mie peregrinazioni, ricordo che ero a Dachau, mi trovai all’improvviso il blocco di fronte, che era vuoto, pieno di uomini. Erano riversi a terra, non riuscivano più a muoversi, stavano morendo. Uno strazio indicibile. Rubai due patate in cucina e le gettai dall’altra parte, oltre il reticolato. Non riuscivano neppure ad allungare il braccio per afferrarle».
Quali furono le sue peregrinazioni?
«Noi ebrei ungheresi fummo deportati per ultimi, e liberati per ultimi. Man mano che i russi si avvicinavano ad Auschwitz, cominciarono a spostarci verso Ovest. La marcia della morte. Mille chilometri a piedi. Kaufering, Landsberg, Dachau, Christianstadt, Bergen-Belsen».
Dove arrivarono gli americani.
«Quando i russi entrarono ad Auschwitz, aprirono le cucine, e i superstiti vi si riversarono dentro. Ma avevano lo stomaco chiuso, morivano con la faccia dentro la pentola. Gli americani furono scientifici. Graduarono l’alimentazione, dieci grammi di cibo in più al giorno, e ci salvarono. Ci diedero il Ddt. Tutti bianchi, sembravamo fantasmi».
E lei tornò a casa, in Ungheria.
«Ricordo cinque soldati ungheresi fascisti. Si misero nelle nostre mani, per non essere uccisi. E noi li accogliemmo, furono i nostri compagni di viaggio, a bordo di un camion pieno di carbone. Fu allora che rinunciai a qualsiasi proposito di vendetta, a qualsiasi sentimento di odio. Arrivarono con noi sino a Pilsen, in Cecoslovacchia. Poi ci benedissero. E ci lasciarono».
Lei andò in Israele.
«Israele era la favola della mia infanzia. Nel villaggio dove sono cresciuta, Tiszakarád, noi ebrei eravamo odiati e disprezzati. Eravamo gli assassini di Gesù. A Tiszakarád c’era un solo crocefisso, appeso a due fili di ferro, con il corpo proteso in avanti, e io temevo che potesse scendere dalla croce per punirmi. Veniva un prete dalla città a farci lezione, ci pose una domanda, io sapevo la risposta, alzai la mano, e lui mi gelò: “Zitta tu, ebrea, la cosa non ti riguarda”».
La favola.
«Per farmi dormire, mia madre mi raccontava della terra promessa, la terra del latte e del miele, dove avremmo vissuto liberi e felici, senza che nessuno ci odiasse o volesse farci del male».
Invece?
«Invece già prima di approdare ad Haifa i funzionari del nuovo Stato salirono a bordo della nave, e ci chiesero quali valori avessimo con noi. Cosa dovevamo avere? Nulla. Eravamo sopravvissuti ai campi di sterminio».
Era il 1948. Scoppiò la guerra.
«All’inizio ci chiusero in un campo profughi, e usavano il bastone anche lì. Una delusione cocente. Poi ci diedero le case abbandonate dagli arabi, tuguri di fango. Dovevo entrare anch’io nell’esercito, per evitarlo feci un matrimonio di convenienza con un signore che si chiamava Bruck, di cui ho tenuto il cognome. Il mio, quello vero, è Steinschreiber».
E venne qui, in Italia.
«Arrivai a Napoli. Ricordo la luce e il calore delle persone. L’accoglienza. I sorrisi. Ti facevano sentire a casa. Per mantenermi lavoravo in un corpo di ballo, una sera mi invitò a danzare Ugo Tognazzi. Continuava a dirmi: un due tre, Vianello… Non capivo. Un due tre era la sua trasmissione».
E poi l’amore: Nelo Risi, uomo di cinema e di letteratura, fratello del regista Dino.
«Era un uomo talmente buono che non avrebbe mai schiacciato una formica o maltrattato un topo. La nostra prima casa era molto piccola, e in bagno trovammo appunto un topo. Nelo rimase due ore a parlare con il topo, gli costruì una torre di stracci, quello ci salì e scappò dalla finestra. Così, in ricordo della bontà d’animo di mio marito, ho questo topolino di pezza».
Lei all’inizio ha parlato di cinque luci che si sono accese nel momento più buio della sua vita. La prima fu il soldato che la mandò a destra anziché a sinistra. Quali furono le altre?
«Le ho raccontate a Papa Francesco, quando è venuto qui. La seconda luce fu il cuoco di Dachau. Al confronto di Auschwitz, Dachau era il paradiso terrestre, c’erano bucce di patata a volontà, e un giorno il cuoco mi chiese: “Wie heisst du?”, come ti chiami? Fu un terremoto. Non ero più il numero 11.152; per un attimo era tornata un essere umano. Poi aggiunse: lo sai che ho una bambina come te? E mi regalò un piccolo pettine».
La terza luce?
«Scavavamo trincee a Landsberg, un lavoro forzato disumano, senza niente da mangiare. Un soldato mi sbatte addosso la gavetta e mi grida: “lavala!”. Quando l’ho raccontata al Papa, lui ha intuito la fine della storia, e mi ha chiesto: cosa c’era nella gavetta?».
Cosa c’era?
«Due dita di marmellata, che mi hanno consentito di non morire di fame».
La quarta luce?
«A Kaufering un soldato mi sbatte addosso un guanto bucato. Qui di nuovo il Papa mi ha chiesto: cosa c’era in quel buco?».
Cosa c’era?
«All’apparenza, niente. In realtà, c’era la vita. Perché con quel guanto ho evitato di congelarmi le mani».
Manca la quinta luce.
«Bergen Belsen. Dobbiamo portare giubbotti per i soldati, a otto chilometri di distanza. Io ho otto giubbotti in mano, sono distrutta, non ce la faccio più, ne lascio cadere quattro nella neve. Le altre fanno lo stesso, si liberano di metà del carico, la neve si copre di giubbotti. I tedeschi gridano: chi ha cominciato? Io faccio un mezzo passo avanti».
E i tedeschi?
«Un soldato comincia a riempirmi di botte, perdo molto sangue, mia sorella d’istinto si getta contro di lui, lo fa cadere nella neve. Quello si alza, si avvicina, estrae la pistola, noi pensiamo: è finita. I nazisti ci uccidevano per molto, ma molto meno. Quello invece grida: “E tu, una lurida, schifosa, puzzolente ebrea, hai osato alzare le tue schifose mani sopra un tedesco?! Hai coraggio. Meriti di sopravvivere”».
Riusciremo mai a liberarci dell’antisemitismo?
«No. L’antisemitismo è sempre esistito ed esisterà sempre; perché l’umanità avrà sempre bisogno di un capro espiatorio. E nei prossimi anni sarà peggio. Quand’ero bambina, ci dicevano: voi ebrei siete avari, sporchi, brutti. Quante volte mi sono sentita dire: sei troppo bella per essere ebrea. E ancora adesso sento dire: voi ebrei. Ma non esiste il voi. Persino Italo Calvino lo diceva».
Non era certo antisemita.
«No. Ma diceva: voi ebrei. E io: “Italo, non siamo tutti uguali, siamo tutti diversi”. Invece, se un ebreo sbaglia, tutti gli ebrei sbagliano. Ma io non sono Netanyahu».
Crede in Dio?
«Dio, come dice il Papa, è una ricerca continua».
E nell’aldilà?
«No. L’anima non esiste».
E il perdono?
«Un ebreo può perdonare solo per se stesso. Io posso perdonare per me; non posso perdonare per gli altri. Per i milioni di esseri umani che hanno affidato la parola a noi, ultimi sopravvissuti».