Corriere della Sera, 19 gennaio 2025
I cattolici democratici non fanno un partito (per ora)
Milano – «Siamo qui nel solco dei valori di don Sturzo, non per fondare un nuovo partito o una nuova corrente». Chi si aspettava un intervento dirompente è rimasto deluso. L’esordio nell’agone politico di Ernesto Ruffini, che ha da poco lasciato la guida dell’Agenzia delle entrate in polemica con il governo, è in punta di piedi. A Palazzo Lombardia ci sono oltre 500 persone, in gran parte di area cattolica ma non solo, arrivate da più parti d’Italia per ascoltarlo. Il regista dell’operazione, che rilancia con forza la necessità di costruire un nuovo centro unendo più storie e non solo quella della fu sinistra Dc, è il senatore del Pd Graziano Delrio, convinto a costruire questa nuova area dentro al suo partito e non fuori. Quand’è il suo turno, Ruffini sceglie di parlare seduto. Pesa ogni parola, con un ragionamento che parte evocando proprio il 18 gennaio del 1919, data simbolo in cui don Luigi Sturzo scrisse di getto quell’«Appello ai liberi e forti», poi diventato il manifesto del cattolicesimo democratico. «Chi sono, oggi, i liberi e i forti ai quali si rivolgerebbe Sturzo? Liberi da cosa? Forti di cosa e per fare cosa? Di cosa ha bisogno oggi la nostra democrazia?», si chiede retoricamente Ruffini. La (sua) risposta: «Di certo non ha bisogno di sedicenti super-uomini, ma di cittadini liberi che ritrovino l’entusiasmo di partecipare. E di una classe politica capace di accoglierli con generosità».
Ruffini, figlio del fu potente ministro democristiano Attilio e con un forte legame con il capo dello Stato Sergio Mattarella, spiega di essere «venuto qui a parlare da normale cittadino» e poi sottolinea la necessità di «impegnarsi ad ascoltare voci diverse» coinvolgendo nel solco del cattolicesimo democratico «nuovi elettori strappandoli all’astensionismo». L’etichetta di possibile «federatore» di questo nuovo centro, almeno per adesso, non sembra essere in cima ai pensieri di Ruffini. Che però, sul finale del suo intervento, tira fuori una riflessione politica che lascia il segno in platea. Prima ricorda David Sassoli: «Quanto mancano le sue intuizioni!». E poi dice: «David è stato fondamentale nella costruzione di quella che viene chiamata la “maggioranza Ursula”, che ormai da due legislature governa l’Europa – conclude –. Forse, se ci fosse ancora lui, ci farebbe riflettere su come quella maggioranza nata in un momento di necessità potrebbe diventare una scelta solida per essere alternativi alla destra. Senza essere nemici, ma alla destra noi si deve essere alternativi».
In videocollegamento, arriva poi l’intervento dal peso specifico più rilevante, quello di Romano Prodi: «Non penso a un partito dei cattolici, ma al necessario e indispensabile, anche se non sempre riconosciuto, contributo dei cattolici per la costruzione di un Paese più giusto, più dinamico e più capace di interpretare i grandi cambiamenti di oggi e di domani». Il padre dell’Ulivo, la complicata alchimia grazie a cui il centrosinistra riuscì a battere Berlusconi, incalza: «Era ora che cominciassimo a parlare, siamo stati muti per troppo tempo mentre la democrazia è discussione e partecipazione. Aggiungendo: «Siamo stati corrosi dal mito dell’uomo solo o della donna sola, la democrazia si salva solo con la partecipazione». E per il Professore è anche l’occasione per ringraziare la segretaria dem: «Elly Schlein è riuscita a rafforzare l’indispensabilità del Pd come catalizzatore della capacità di cambiamento».
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In platea, non solo di mera impronta fu sinistra Dc, ci sono pure l’ex ministra renziana Maria Elena Boschi e Beppe Sala, arrivato motu proprio perché «interessato ad ascoltare». Il sindaco di Milano, anche lui più volte evocato come possibile «federatore» dei troppi «centrini», respinge l’etichetta. Prima di salire sul palco fa partire una staffilata: «Quella del Pd che dice no al terzo mandato mi pare veramente una posizione antistorica» e in linea con la legge promossa dal centrodestra. E poi: «Io quello che chiedo è coerenza – ha aggiunto –, primarie sì, primarie no, o primarie quando fanno comodo? Due mandati come limite sì, come avviene nei Comuni, no come avviene in Parlamento e alle Europee o quando fanno comodo?». Gli fa eco l’ex ministro Lorenzo Guerini, tra i vertici dei riformisti del Pd: «Sul terzo mandato va fatta una riflessione». Poi Sala prende la parola davanti ai 500 «cattodem» e incassa più di un applauso: «Vi confesso che ho un tormento: in politica voglio vincere. E appunto, assieme agli altri mi chiedo ogni giorno come riuscirci». Poi aggiunge che il Pd dovrebbe parlare «di più alle imprese e fuori dalle grandi città, realtà in cui andiamo meglio, mentre servirebbe più attenzione “fuori”, dove strappare 4 voti alla Lega è come conquistarne 400». Il primo cittadino, pur avendo sempre votato per la filiera corta Pci-Pds-Ds-Pd, tira poi fuori un aneddoto famigliare significativo. E spiega che suo padre Gino, a capo di una piccola impresa, «aveva la tessera della Dc». E quindi: «Oggi qui si parla a un mondo cattolico, ma siamo al Nord e qui non riusciamo a conquistare il governo delle Regioni. La mia non è un’opinione ma un fatto. Il mondo produttivo non è solo la Fiat. Mio papà aveva una ventina di dipendenti, e quando tu parli a quell’imprenditore artigiano, parli a quella piccola enclave di persone che lavorano con lui».