Corriere della Sera, 19 gennaio 2025
Maria Zaitseva, dissidente bielorussa morta in Ucraina
Fra otto giorni si vota in Bielorussia e c’è una buona notizia per il dittatore Aleksander Lukashenko: Maria Zaitseva, stavolta, non ci sarà. Quando Minsk scese in piazza a contestare le ennesime elezioni taroccate, cinque anni fa, la foto di Maria insanguinata diventò il manifesto della protesta: lei colpita da una granata stordente e seduta su un marciapiede, i rivoli rossi a colarle sulla faccia, a pochi passi dalla Grande Stele Patriottica.
Un’immagine che arrivò a tutto il mondo, ma senza indignarlo troppo. Il miglior amico di Vladimir Putin riuscì a reprimere la rivolta, in pochi giorni e nell’indifferenza dell’Occidente: arrestò 65 mila persone, chiuse 1.700 ong, bandì tutti i partiti politici tranne il suo. Era il 9 agosto 2020.
Oggi, 1.300 dissidenti di quell’estate sono ancora in prigione, pressoché dimenticati. Mentre Maria, ricoverata in ospedale coi timpani fracassati e problemi motori alle mani, riuscì a rifugiarsi nella Repubblica Ceca per la riabilitazione. Tutti ce l’immaginavamo ancora là, profuga fra migliaia di profughi. Pochi sapevano che fine avesse fatto: Maria s’era arruolata nella Seconda Legione internazionale dell’esercito ucraino. E venerdì 17, la mattina dopo il suo 24esimo compleanno, è stata uccisa nel Donetsk, durante una battaglia intorno a Bakhmut.
Sull’Aiuola dei Caduti di Maidan, nel vento gelido che la sera taglia le migliaia di drappi e di foto che vedove e orfani vengono a curare come tombe, adesso due bandierine sono per lei. Una rossoverde, onore alla bielorussa che combatteva per la libertà. Una gialloblù, per la soldatessa che difendeva gli ucraini. «Gloria agli eroi!», scrivono sui social gli amici di questa brunetta smagrita, mezza sorda, affaticata nei movimenti. E però, fin dal primo giorno d’invasione, convintissima sul da farsi. Se Lukashenko metteva la Bielorussia a disposizione di Putin, se offriva le sue basi per l’attacco a Kiev, se prestava ai russi gli aeroporti e schierava le armi nucleari tattiche – quelle che ogni tanto lo Zar minaccia d’usare contro l’Occidente –, allora era chiaro: combattere Lukashenko e combattere Putin, era la stessa cosa. E a Maria non bastava fare opposizione politica dall’estero. Doveva imbracciare l’automatico e andare in prima linea, a sparare in una guerra che sentiva sua.
A Minsk, la morte della ragazza-simbolo circola clandestina sui cellulari. Nessun organo ufficiale ne ha dato notizia. Lukashenko è al comando dal 1994 e ha tutta l’intenzione di durare. Salendo al potere, promise di «cacciare tutti gli oppositori sull’Himalaya». Poi s’accontentò di rinchiuderli, torturarli, esiliarli.
È scontato che si faccia rieleggere anche a questo settimo mandato: in novembre, ha messo in galera altri cento contestatori, con l’accusa di terrorismo.
«Le elezioni del 26 gennaio in Bielorussia – commenta il segretario di Stato americano uscente, Antony Blinken – non possono essere credibili, in un contesto in cui la censura è onnipresente e non esistono più organi d’informazione indipendenti, dove solo i candidati approvati dal regime possono comparire sulla scheda elettorale e dove i membri dell’opposizione sono imprigionati o in esilio».
La più importante oppositrice, Svetlana Tikhanovskaya, che nel 2020 era la sfidante di Lukashenko, dopo avere denunciato le frodi elettorali s’è rifugiata anche lei in Europa. Dalla Lituania, guida un governo in esilio. Ed è a lei che guardano i 500 mila bielorussi in fuga dal regime, un ventesimo della popolazione, da cinque anni costretti fra la Germania e la Polonia, i Baltici e la Georgia.
Maria era una di loro: «Una perdita inimmaginabile – la piange la leader Svetlana –, l’icona della nostra rivoluzione. Ha dato la vita per la libertà».