Corriere della Sera, 18 gennaio 2025
Il punto sulla Germania
La Germania a destra è una cosa che nelle nostre vite non avevamo ancora visto; e sarà la prima grande novità politica dell’anno.
Nel 1990, in un clima di piena euforia da «fine della storia», Fabrizio De André compose la sua ultima canzone politica. La intitolò La domenica delle salme perché a lui, che pure da anarchico poteva dire davvero di non essere mai stato comunista, il crollo del Muro non pareva evento da festeggiare. La riunificazione tedesca lo preoccupava, al punto da evocare «la scimmia del Quarto Reich», che «ballava la polka sul tamburo; e mentre si arrampicava le abbiamo visto tutti il culo». Neppure Giulio Andreotti era entusiasta: «Amo talmente la Germania – sorrideva sornione – che ne preferisco due».
Il Quarto Reich, nella visionarietà di Fabrizio De André, era la nuova, grande Germania. Che però non si presentava né con i baffoni imperiali del Kaiser, né con i baffetti isterici del Führer, bensì con il bonario sorriso renano di Helmut Kohl, insomma un democristiano. Dopo di lui è venuto un socialdemocratico, Gerhard Schröder, buon Cancelliere finito tristemente a fare lo stipendiato di Putin. Poi Angela Merkel, che per tre delle sue quattro legislature ha governato con i socialdemocratici: più che una Grande Coalizione, un centrosinistra. E sotto la spinta della pandemia la Merkel ha infranto il tabù, e ha accettato un grande piano di investimenti comuni europei, quindi di fatto il debito comune europeo.
Infine è arrivato un Cancelliere che non lascerà tracce di sé, Olaf Scholz, che alle elezioni anticipate del prossimo 23 febbraio condurrà l’Spd, il partito più antico d’Europa, al minimo storico.
La prima forza sarà la Cdu di Friedrich Merz, lo storico rivale della Merkel. Merz rappresenta l’ala conservatrice del partito. È l’erede di Wolfgang Schäuble, l’uomo del rigore, nemico giurato dei latini spendaccioni, cioè noi. Sconfitto da Angela, Merz per vent’anni si è dedicato a fare denaro come avvocato d’affari, con grande successo: possiede due aerei privati che pilota di persona. Ora tocca a lui, e presto rimpiangeremo i suoi predecessori: con Merz alla guida, l’era del Pnrr e del denaro facile ci apparirà remota.
Certo, Merz non è un populista antisistema. È anti-russo e filo Nato, è andato a Kiev a sostenere Zelensky, ha criticato Trump. Non appartiene all’Internazionale reazionaria denunciata da Macron. Ultimamente appare anche più flessibile sul debito comune europeo. Ma alla sua destra avrà un partito del 20%, l’Afd, Alternative für Deutschland. Le corrispondenze di Mara Gergolet e di Paolo Valentino sul Corriere ci spiegano che Merz non farà un’alleanza di governo con gli estremisti: anche se volesse, gran parte della Cdu non lo seguirebbe. Tuttavia non possiamo illuderci che la presenza di un’opposizione così rumorosa e ingombrante, sostenuta da Elon Musk e forse anche da Donald Trump, non condizionerà il nuovo Cancelliere. Tanto più che, se la Cdu e i bavaresi della Csu (in Germania le chiamano le Unioni) stringeranno un nuovo patto con i socialdemocratici, l’Afd resterà di fatto l’unica opposizione, insieme con i fratelli rossi della Bsw, dove B sta per Buendnis, alleanza, e SW per le iniziali della leader, Sahra Wagenknecht. E opporsi da soli al governo è la condizione migliore per crescere, come dimostra in Italia il caso di Giorgia Meloni.
La svolta a destra in Germania sarà per l’Europa uno choc. Politico. Economico. E il conto lo pagheranno i Paesi più deboli, a cominciare dall’Italia, con la sua filiera produttiva legata alla Germania e con i suoi tremila miliardi di euro di debiti garantiti dall’Europa, cioè di fatto dai tedeschi. E sarà anche uno choc culturale.
L’Afd non è un partito nazista. Ma è un partito anti-antinazista. Non rivaluta Hitler; allude, distorce, minimizza. Di fatto nega qualsiasi responsabilità storica dei padri: una cosa che a tanti tedeschi piace moltissimo. Soprattutto, l’Afd non è un ghetto di nostalgici o di estremisti. Ha il pieno appoggio della nuova destra americana, è in sintonia con il Cancelliere austriaco designato Herbert Kickl, ha alleati in Europa.
La Germania è in crisi, lo sappiamo. È stata definita un Paese analogico in un mondo digitale. Ha visto franare il suo modello di sviluppo: difesa garantita dagli Stati Uniti, energia a basso costo dalla Russia, esportazioni sostenute dal mercato cinese. Eppure la Germania resta il Paese più importante d’Europa. E se la Germania lasciasse l’Europa, come chiede l’Afd, l’Europa non esisterebbe più.
Certo, non accadrà. Ma ci attendono anni difficili. Al tedesco arrabbiato, torvo, rivendicativo, ipernazionalista non eravamo più avvezzi. Che fine hanno fatto i tedeschi «buoni» cui avevamo fatto l’abitudine, sorridenti, ecologisti, accoglienti con i siriani e altri migranti, amici dell’Italia? Era uno stereotipo, certo. Ma come molti stereotipi aveva qualche fondamento: la Germania, ad esempio, è di gran lunga la nazione europea che ha accolto più stranieri.
Di sicuro guardare il futuro con gli occhiali del passato non ci aiuterà a capire. Il nazifascismo non torna, non tornerà; e ci mancherebbe altro. Nulla torna mai davvero nella storia. Ma una svolta sovranista della Germania sarebbe un guaio pure per i sovranisti italiani. C’è sempre un sovranista più grosso di te. E la Germania, che la propaganda racconta come messa molto peggio di noi, ha un Pil ormai doppio del nostro.