Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  gennaio 17 Venerdì calendario

Sudan, un milione di profughi sui Monti Nuba


La guerra infinita tra i due generali rivali in Sudan sta cambiando il destino dei Monti Nuba. Al riparo dalle bombe, lontano dal delirio dei militari, l’altopiano isolato del Sud Kordofan, in Sudan, è un buon rifugio per chi scappa. Mentre le Rapid Support Forces del generale Dagalo e l’esercito regolare di al-Burhan (finito proprio ieri sotto sanzioni Usa) si combattono senza tregua, qui l’unione fa la forza. E la comunità Nuba accoglie. Da mangiare ce n’è poco e la fame incalza «ma almeno si sopravvive». A raccontarlo è un report di Refugees International, Ong dedicata alla protezione degli sfollati. Ma è anche la testimonianza di prima mano di un comboniano, sui Monti Nuba per una «missione lampo» un mese fa, dopo un viaggio di dieci ore dal Kenya. Lui è padre Kizito Sesana, figura storica degli slum di Nairobi. «Mentre la guerra imperversa al nord, qui possiamo dire che si vive in un’oasi di pace – racconta al telefono –. Il che è già un paradosso». «Un pugno di sorgo, un mazzetto di verdure, un bicchiere di latte» e passa la giornata, dice il comboniano. L’alimento salva vita per chi è appena arrivato a destinazione è una sorta di porridge che ricarica di energia. A distribuirlo ci pensano le cucine comunitarie. Poi «si costruiscono le capanne con i legni recuperati dalla savana». Fino a pochissimi anni fa i Monti Nuba erano uno dei posti più pericolosi al mondo, al centro dell’irrisolvibile conflitto per la liberazione del popolo omonimo dal giogo sudanese. Target della guerra erano proprio loro: i Nuba people dell’altopiano sudanese.
In pochi avrebbero scommesso su un altro epilogo. Gli sfollati in cerca di pace e sicurezza oggi oscillano tra 700mila e un milione. Tra loro ci sono anche Tahani e Amira: due mamme trentenni fuggite da Khartum in fiamme. Vivono in un Idp camp (un campo per sfollati interni) allestito in una radura dei Monti Nuba e gestito da personale locale.
«Anche solo uscire di casa per cercare dell’acqua a Khartoum voleva dire rischiare la vita o lo stupro», ricorda Amira. Lei è fuggita dopo che suo figlio era stato catturato e malmenato. Moltissimi sfollati sono morti lungo il cammino, alcuni si sono nutriti di foglie per giorni e giorni. Altri troppo deboli per proseguire hanno mollato. «Arrivano da noi sotto choc dopo essere scampati alle uccisioni indiscriminate da parte dei due eserciti e dopo aver combattuto la fame», conferma un operatore Nuba. Solo la grande generosità degli abitanti ha consentito il miracolo: nel campo vicino Heiban 4mila persone si stanno ricostruendo una vita. «Hanno cominciato a coltivare il sorgo – racconta padre Kizito – ma in attesa dei primi raccolti è servita tutta la solidarietà degli abitanti, essi stessi in povertà assoluta». «Qui almeno posso dormire e sentirmi al sicuro», dice Hamdul, 25 anni, arrivato da Kosti, a nord-est dei Monti Nuba per salvare il padre ammalato. Ha assistito sotto choc alla morte di suo fratello più piccolo, ucciso dai militari dell’esercito regolare del Sudan. Come lui anche Rania, 26 anni, scappata di notte con niente appresso se non i vestiti che indossava e i suoi figli per mano. «Non avevo neanche le scarpe», racconta. La verità è che oggi (per fortuna) né il generale al-Burhan, né l’ex alleato Hemeti, in guerra tra di loro dal 15 aprile 2023, hanno tempo per i Nuba. La guerra dimenticata si cristallizza e il Sudan rischia il destino libico. Le vittime di questo conflitto per il potere, apparentemente senza vie d’uscita, ammontano ad almeno 20mila. I rifugiati (dentro fuori il Paese) superano la cifra record di dieci milioni. Il vero dramma sarà dare da mangiare a tutti: il popolo Nuba vive di agricoltura e pastorizia, non possiede mezzi per un flusso di sfollati in aumento. Le Peace Committees locali organizzano la vita quotidiana come possono, tra coltivazioni di sesamo e corridoi umanitari. «Lo spettro della guerra si chiama famine», dicono a mezza bocca gli operatori sociali. Ossia carestia.