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 2025  gennaio 17 Venerdì calendario

Esce il Meridiano di Dino Campana

«Il poeta che apre il Novecento italiano è Dino Campana, visionario, orfico, non aspira a mediare l’indecifrabile, ma a isolarlo nella sua potenza primordiale». Questo esercizio d’intelligenza critica porta la firma di Giuseppe Pontiggia, ed è la più convincente intuizione sulla natura poetica dell’autore marradese, a cui la Mondadori dedica un minuziosissimo Meridiano, curato da un campaniano doc come Gianni Turchetta. Il volume, di 1540 pagine, raduna per la prima volta tutta l’opera in versi e in prosa del poeta ad oggi disponibile, oltre ad apparati, epistolari, testi pubblicati prima e dopo i Canti orfici, le varianti, il manoscritto originale dal titolo Il più lungo giorno smarrito da Soffici nel 1914 e ritrovato dalla figlia solo nel 1971, il Taccuino Matacotta, le Carte Ravagli, quelle di Papini e di Bandini. Solo la cronologia della vita redatta da Turchetta costituisce un libro nel libro: dettagliata e argomentata quasi filologicamente. Per non parlare del notevole saggio introduttivo che passa in rassegna l’estesa cultura di Campana a cavallo tra estetismo, espressionismo e cubismo, il forte legame con la tradizione italiana di Dante e Carducci, la cultura artistica, i prestiti, gli echi di Nietzsche e Whitman, Novalis, Poe, Baudelaire Mallarmé, Verlaine e il “cugino” francese errante e gran camminatore, che risponde al nome di Rimbaud. Va quindi riconosciuto al curatore il merito di aver saputo condurre in porto questa operazione editoriale durata quattro anni, dopo aver passato buona parte della sua vita a scandagliare e studiare ogni aspetto di questo poeta «bello di tormento dietro le larve del mistero».
Viene quindi spontaneo fare una breve sintesi della vita di Campana (1885-1932) che, a ventun anni, in seguito alla sua «impulsività brutale, morbosa», destinata ad acuirsi, viene ricoverato per qualche tempo nel manicomio di Imola.
Studia svogliatamente Chimica presso le università di Bologna, Firenze e Genova, ma alla scuola preferisce la scrittura, i viaggi in Francia e in Argentina e i vagabondaggi. Nel 1910, dopo un altro ricovero, compie a piedi il pellegrinaggio da Marradi al Falterona e alla Verna. Si mantiene facendo i mestieri più diversi (pianista in locali e bordelli, arrotino, pompiere). Spesso si fa coinvolgere in risse a cui segue l’arresto. Nel biennio 1913-14, frequenta i circoli fiorentini di La Voce e Lacerba. A dicembre consegna a Papini il manoscritto Il più lungo giorno, il quale, sottovalutandone il valore, lo gira a Soffici, colpevole di averlo smarrito. Campana è disperato. Con un tenace vitalismo ricompone in poco tempo da cima a fondo i testi a memoria e li pubblica nello stesso anno a proprie spese presso la tipografia Ravagli. Se può riscrivere quei versi è perché riceve l’eco della sua voce solitaria nella terra di nessuno.
Campana irrompe nella poesia italiana del secondo decennio come una furia inattuale, che non ha parentele stringenti con i movimenti e la poesia dell’epoca. Il tentativo di arruolarsi come volontario all’entrata in guerra dell’Italia, fallisce. Viene riformato e nuovamente rinchiuso in clinica. Nel 1916 si trasferisce a Lastra a Signa, dove conosce la scrittrice Sibilla Aleramo, con la quale inizia una tempestosa relazione sentimentale, terminata nell’inverno del 1917, in seguito all’aggravarsi della condizione mentale e della condotta del poeta. Dichiarato pazzo dall’Ospedale psichiatrico di Firenze, nel 1918 è internato nel cronicario di Castel Pulci dove resterà, assistito dalla psichiatra Carlo Pariani, fino alla morte.
La sua opera, distribuita tra liriche, poèmes en prose e frammenti, è nutrita dalla figuratività carducciana, da echi nietzschiani e dannunziani. L’intensità visionaria di un impressionismo paesistico, sfocia spesso in un denso simbolismo (che denota l’influenza di Baudelaire e del Rimbaud delle Illuminations) e in un linguaggio analogico ricco di suggestioni. A proposito della lingua campaniana, va forse sottolineato come la sua ossessione e smania correttoria, non esce quasi mai dal suo perimetro espressivo. L’intimità linguistica delle varianti, sostituzioni e reminiscenze, resta ancorata a un linguaggio comunque blindato, che non sottintende altro vocabolario se non quello discendente in modo viscerale dalla sua ansia lessicale e metaforica. Campana è un poeta affamato di vita e di sogno. La sua Chimera non rappresenta solo l’immagine inafferrabile della donna ma tiene stretta a sé pure la poesia. La Chimera racchiude quindi il doppio statuto “carnale” di donna e poesia. Se c’è un limite in Campana, va ricondotto al fatto di non essere riuscito ad assimilare la fenomenologia del reale, probabilmente in conseguenza dei suoi conclamati disturbi mentali. È interessante l’immagine che ci consegna Turchetta quando individua in Campana una forma di visionarismo espressionista. Di rilievo è pure la sua testimonianza diretta sull’irresistibile fascinazione esercitata tuttora da Campana sui giovani, che sembra andare di pari passo con l’indebolimento del suo mito incorniciato dal maledettismo di maniera.
Campana è un perdente, un vinto. Un riflesso della poetica del marradese potrebbe stare in questi versi de La notte, «Tutto era mistero per la mia fede, la mia vita era tutta un’ansia del segreto delle stelle, tutta un chinarsi sull’abisso». Non importa che un paio di questi splendidi versi siano presi dal poeta lituano Jutgis Kazamirovi Baltrušaitis.
Campana è poeta fino all’estremo e al sacrificio. La poesia che cerca abita nel segreto delle stelle e il suo travaglio psichico è vivere sul precipizio. Parafrasando Mandel’stam, possiamo dire che spesso «Viviamo senza sentire sotto di noi la poesia». Campana l’ha sentita lungo tutto il suo cammino, invocando sempre: «O poesia poesia poesia/ Sorgi, sorgi, sorgi/su dalla febbre elettrica del selciato notturno».