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 2025  gennaio 16 Giovedì calendario

Rinuncia alle cure causata dalla povertà sanitaria


Di povertà sanitaria è tornato a parlare il Capo dello Stato nel discorso di fine anno, ricordando che le liste d’attesa del Servizio sanitario nazionale sono talmente lunghe che molti rinunciano a curarsi, anche perché si ritrovano senza alternative: non possono ricorrere neanche al privato, per mancanza di mezzi. Un fenomeno già indagato dall’Istat e dal Censis, sul quale la Chiesa italiana ha fatto sentire tutta la sua profonda preoccupazione con la voce di don Massimo Angelelli, direttore dell’Ufficio Cei per la Pastorale della Salute, intervistato una settimana fa su questa stessa pagina ( tinyurl.com/ y69znsz8). Il tema è diventato di scottante attualità con la riforma dell’autonomia differenziata, che inciderà pesantemente sulla gestione della spesa sanitaria. Ne è convinta anche Ketty Vaccaro, responsabile Ricerca biomedica e Salute del Censis: «L’Istat – ci spiega – stima in 4,5 milioni (il 7,6% della popolazione) gli italiani che nel 2023 hanno rinunciato a prestazioni sanitarie di cui avevano bisogno (visite specialistiche, escluse le visite dentistiche, o esami diagnostici), per problemi economici (4,2%) o legati alle difficoltà di accesso al servizio, incluse le lunghe liste di attesa (il 4,5%)». In una indagine dello scorso anno il Censis ha rilevato che ogni 100 tentativi di prenotare prestazioni nel Servizio sanitario il 34,9% si è concluso con la decisione di rivolgersi alla sanità a pagamento, cioè in intramoenia o nel privato puro. In altre parole, in un caso su tre il costo della prestazione sanitaria è stato a totale carico dei cittadini. Aggiungiamoci che il 36,9% degli italiani ha dichiarato di aver dovuto tagliare “altre spese” per finanziare le proprie spese sanitarie; questa quota diventa il 50,4% delle persone con reddito basso, il 40,5% con reddito medio-basso, il 27,7% con reddito medio-alto e il 22,6% con reddito alto.
Sugli ostacoli alla fruizione di alcune prestazioni del Sistema sanitario ha esercitato un effetto anche la pandemia. Per l’Istat le persone che hanno dovuto rinunciare a prestazioni necessarie durante la pandemia sono raddoppiate (dal 6,3% nel 2019 all’11,1% nel 2021), ma nel 2022 la quota si è attestata al 7% per arrivare al 7,6% nel 2023. Secondo Vaccaro, la difficoltà di accesso alle cure rimane soprattutto economica (anche per l’Istat: rispetto al 2022 aumenta di 0,7 punti la quota di chi rinuncia a causa delle liste di attesa e di 1,3 quella di chi lo fa per motivi economici) ma i fenomeni sono collegati. «Il rischio è quello di una sanità per censo in cui chi ha maggiori diponibilità economiche può bypassare le liste d’attesa accedendo alla sanità a pagamento, mentre chi ha più difficoltà economiche deve attendere o finisce per rinunciare alle prestazioni specialistiche o diagnostiche di cui ha bisogno» dichiara la ricercatrice.
Cosa fa la politica per dare soluzioni? I tentativi di intervenire sulla riduzione delle liste d’attesa sono precedenti alla pandemia: ad esempio, il Piano nazionale delle Liste d’attesa 2019-2021 (ministra della salute Giulia Grillo) approvato dalla Conferenza Stato-Regioni nel febbraio del 2019, prevedeva misure richiamate anche nel decreto legge 73 del giugno scorso. Soluzioni zero, ma un bel risparmio per lo Stato. «In fondo le liste d’attesa rappresentano una forma di razionamento non palese che impone ai cittadini di mettere mano al portafoglio per accedere alle cure, come dimostra a livello più generale anche l’andamento della spesa sanitaria negli ultimi anni» commenta Vaccaro, ricordando che la spesa sanitaria privata è aumentata nel decennio 2013-2023 del 20,2% in termini reali, mentre quella pubblica del 5,2%. E segnala che la spesa sanitaria privata delle famiglie nel 2023 (44.342 miliardi di euro) rappresentava il 25,2% del totale della spesa sanitaria (rispetto al 23,3% del 2013). «Si tratta di un percorso di lungo periodo che ha vincolato il Servizio sanitario con un approccio ragionieristico, già a partire dai decreti legislativi 502/92 e 517/93, imponendo tagli e modelli operativi con vincoli di budget che hanno finito per far prevalere le ragioni economiche sulla tutela della salute e imposto, più o meno sottotraccia, una forma di privatizzazione del rischio sanitario» dichiara.
Oltre a questi fattori vi è la difformità nella presenza e nel funzionamento dei servizi nelle diverse Regioni, che introduce un altro elemento di diseguaglianza e di iniquità. Durante il Covid una rete di servizi territoriali rodata e funzionante ha garantito, nelle zone in cui era presente, una maggiore capacità di monitoraggio e cura a domicilio dei pazienti contagiati. Non è un caso che il Pnrr si sia concentrato sugli investimenti per lo sviluppo di una sanità territoriale, ma le differenze permangono, e secondo Vaccaro la riforma dell’autonomia differenziata potrebbe incidere sulla capacità di riduzione dei gap tra le Regioni proprio sul fronte più debole della medicina del territorio: «Le disparità sono ancora molto ampie – spiega –, come mostrano i dati Agenas relativi al monitoraggio Lea (LIvelli essenziali di assistenza) e alla graduatoria delle performance delle Aziende sanitarie, con il solito gradiente Nord-Sud che si sovrappone a differenze anche nelle stesse Regioni. Ad esempio, per il 2022 le Regioni che registrano un punteggio superiore a 60 (soglia di sufficienza) in tutte le macro-aree considerate nel monitoraggio dei Lea attraverso il nuovo Sistema di garanzia (Area prevenzione, distrettuale e ospedaliera) sono Piemonte, Lombardia, Provincia autonoma di Trento, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Liguria, Emilia Romagna, Toscana, Umbria, Marche, Lazio, Puglia e Basilicata. La Valle d’Aosta, presenta un punteggio inferiore alla soglia in tutte e tre le macro-aree, mentre le Regioni Calabria, Sicilia e Sardegna registrano un punteggio sotto soglia nell’area della prevenzione e nell’area distrettuale. La Provincia autonoma di Bolzano, l’Abruzzo e il Molise hanno valori sotto soglia per l’area della prevenzione e la Regione Campania nell’area distrettuale. Al di là degli indicatori ufficiali, una valutazione indiretta della diversità delle performance sanitarie regionali si ritrova nei giudizi dei cittadini, con una differenza rilevante tra il 58,8% di chi si dichiara soddisfatto della sanità della propria regione tra i residenti nel Nord-Est e un ampiamente minoritario 29,2% di chi vive tra Sud e Isole».
La gravità della situazione è confermata dalla penalizzazione cui vanno incontro le persone con maggiori bisogni sanitari e problemi di cronicità, che più avrebbero bisogno di accedere a prestazioni sanitarie e per tempi lunghi – come i controlli periodici – che non riescono a permettersi. «Il rischio che stiamo correndo è una privatizzazione non palese, con un allontanamento progressivo dai princìpi universalistici della sanità pubblica cha sta aprendo la strada a una sanità moltiplicatrice di disuguaglianze sociali e anche territoriali, ma anche a una percezione di maggiore insicurezza collettiva. E di questo progressivo viraggio gli italiani sono preoccupati, come emerge dall’elevata quota (84,2%) rilevata dal Censis di italiani convinti che i benestanti possono curarsi prima e meglio dei meno abbienti» osserva Vaccaro. Che considera prioritario, per uscire dell’empasse, «un vero investimento su quello che è un asset fondamentale del Paese, puntando sulle risorse umane e razionalizzando e innovando la struttura dei servizi, tenendo conto dell’impatto della cronicità e impegnandosi veramente nelle strategie di prevenzione per affrontare le problematiche future e riaffermare con forza il valore e l’importanza del nostro Sistema sanitario nazionale»