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 2025  gennaio 16 Giovedì calendario

Parla il mediatore Gershon Baskin: i perché della tregua

In confronto all’accordo naufragato all’ultimo lo scorso maggio non ci sono differenze significative. «Il grande elemento di discontinuità rispetto a otto mesi fa è il ritorno imminente alla Casa Bianca di Donald Trump». Ne è convinto Gershon Baskin, mediatore per antonomasia dopo aver negoziato con Hamas il rilascio del soldato Gilad Shalit dopo 1.940 giorni di prigionia. Da quasi mezzo secolo, l’attivista nato negli Stati Uniti e residente a Gerusalemme, si batte per annodare i fili tra israeliani e palestinesi. Dal 7 ottobre 2023, pur non avendo un ruolo ufficiale, è riuscito a seguire passo passo i negoziati per il rilascio degli ostaggi grazie al rispetto e all’autorevolezza di cui gode tra le parti coinvolte. Finora, ogni sua previsione si è avverata. Tanto che, quando domenica è apparso per la prima volta ottimista sui progressi nella trattativa, tanti hanno cominciato a sperare in una svolta. Alla quale ha indubbiamente contribuito l’inedita convergenza di interessi tra l’Amministrazione uscente e quella entrante nel raggiungere l’intesa nel periodo di interregno per contendersene la paternità.
Perché questo testo non è stato firmato a maggio e si è continuato con i combattimenti che hanno causato altre 11mila vittime palestinesi a Gaza e la morte di un ulteriore centinaio di soldati israeliani e di un numero imprecisato di ostaggi?
Anche nel caso di Shalit, l’intesa era sul tavolo di Netanyahu nel dicembre 2006, sei mesi dopo il rapimento, e sono stati necessari cinque anni perché la accettasse. Stavolta ci sono voluti otto mesi. Fin quando, cioè, il premier israeliano – colui a cui maggiormente va la responsabilità del mancato accordo di maggio – non ha avuto altra scelta. Trump è stato categorico. E per dimostrarlo ha spedito a Doha il proprio inviato speciale per il Medio Oriente, Steve Witkoff che ha affiancato il rappresentante di Biden, Brett McGurk. Le due Amministrazioni hanno lavorato di concerto su Egitto e Qatar affinché convincessero Hamas e, al contempo, hanno premuto su Israele. Netanyahu ha dovuto cedere per compiacere Trump non per interesse nei confronti degli ostaggi.
La convincono i contenuti dell’intesa?
A settembre era in discussione una proposta migliore che, però, presupponeva la fine della guerra nell’arco di tre settimane. Netanyahu non era disposto a farlo. L’accordo alla fine accettato non era buono a maggio per la lunga durata della sua implementazione e non è buono ora. È, però, comunque meglio di niente.
Perché l’articolazione in un arco di due o tre mesi la preoccupa?
Perché la durata dell’accordo è inversamente proporzionale alla possibilità di tenuta. È sufficiente l’azione avventata di un solo soldato israeliano o un miliziano per far saltare il cessate il fuoco. Nella prima fase di 42 giorni, inoltre, verranno liberati solo 33 rapiti. Il resto in seguito. Il che significa prolungare ulteriormente le sofferenze degli ostaggi, prigionieri da oltre quindici mesi. Resta da capire quanti Hamas sarà in grado effettivamente di trovare in vita. Molti sono sepolti sotto le macerie degli edifici bombardati nel nord della Striscia. Vari esponenti del gruppo armato mi hanno assicurato che loro stessi non sanno dove si trovino molti dei sequestrati.
Chi di Hamas può garantire l’applicazione dell’accordo a Gaza?
Questo è un punto dolente. Nella Striscia non c’è alcun esponente della leadership politica del gruppo armato. Contrariamente a quanto si dice, Muhammad Sinwar non è il capo di Hamas a Gaza. I movimenti palestinesi in genere e Hamas in particolare non sono “monarchie”: Yahya Sinwar non ha passato lo scettro al fratello. Quest’ultimo è da sempre una figura di spicco dell’ala militare ma non è mai stato all’interno della dirigenza politica.
Tra le parti più complicate dell’accordo c’è la questione del dopoguerra a Gaza. Chi la governerà?
Non Hamas, secondo quanto dett o a me e ai mediatori. L’Anp, secondo quanto dichiarato dal premier Mohammad Mustafa, sostiene che ci sarà un governo unico in Cisgiordania e a Gaza. Che, però, riesca effettivamente a farlo resta un’incognita. Le Nazioni Unite dovrebbero essere coinvolte nella ricostruzione e resta da capire come lo saranno gli altri Paesi arabi.
Potrebbe essere Marwan Barghuti ora che, secondo varie fonti, il suo nome è stato incluso nello scambio?
Anche se verrà liberato, difficilmente Barghuti resterà in Cisgiordania o a Gaza: con tutta probabilità sarà esiliato.