La Stampa, 16 gennaio 2025
A Gaza una festa tra le macerie
Sono passate le otto di sera a Doha quando arriva la notizia dell’accordo sul cessate il fuoco. Nel complesso Thamama che ospita circa 900 palestinesi con amputazioni e ferite gravi per tutti i giorni precedenti l’aria è stata nervosa ma accompagnata da speranza. Nell’area comune, all’esterno, in molti provavano a raggiungere le famiglie nel sud di Gaza, gli sfollati a Khan Younis, a Rafah. I più pessimisti, preoccupati che gli israeliani non se ne andranno mai da Gaza, i più ottimisti sollevati per la fine del massacro.Poi nel tardo pomeriggio l’ufficialità, inizia la prima fase dell’accordo.Sei settimane per uno scambio limitato di prigionieri, il ritiro parziale delle truppe israeliane a Gaza e un’ondata di aiuti nell’enclave. Saranno rilasciati in tutto trentatré prigionieri israeliani, tra cui donne, bambini e civili di età superiore ai 50 anni, e in cambio, Israele rilascerà circa 2.000 prigionieri palestinesi, tra cui 250 prigionieri che scontano l’ergastolo. Tra i palestinesi rilasciati circa 1.000 erano stati detenuti dopo il 7 ottobre. La seconda parte dell’accordo riguarda la presenza delle truppe israeliane, che si ritireranno dai centri abitati di Gaza in aree non più lontane di 700 metri all’interno del confine con Israele. Tuttavia, ciò potrebbe escludere il corridoio di Netzarim, secondo l’accordo Israele consentirà ai civili di tornare alle loro case nel nord assediato dell’enclave, e consentirà un’ondata di aiuti nell’enclave, fino a 600 camion al giorno. Israele consentirà inoltre ai palestinesi feriti di lasciare la Striscia di Gaza per le cure e aprirà il valico di Rafah con l’Egitto sette giorni dopo l’inizio dell’implementazione della prima fase.
È proprio dal valico di Rafah che sono arrivati i palestinesi da Gaza al Qatar, qualcuno è qui da dieci mesi, altri dalla passata estate. Per tutti, il primo pensiero dopo l’annuncio dell’accordo è tornare a casa. Anche se la casa cui tornare non c’è più, come quella di Passant al-Louh. Vive nel lotto B13, al terzo piano. Ha passato la giornata ad aspettare la conferma, ha ancora gli zii a Khan Younis in una tenda, dopo che l’edificio in cui vivevano tutti è stato disintegrato dalle bombe. L’ultima cosa che ricorda della notte in cui un bombardamento israeliano ha sterminato la sua famiglia era la voce di suo padre che chiedeva a suo fratello di aiutarlo a preparare il Nescafè. Di lì a poco si sarebbero spostati davanti la porta di casa, a Beit Lahia, per respirare un po’ d’aria fresca. Passant non ricorda altro fino al momento in cui ha riaperto gli occhi, tre giorni dopo, nell’ospedale di Al-Shifa. Della sua famiglia erano sopravvissuti solo lei e suo fratello Ahmed, 11 anni. Di quello che è accaduto nel frattempo è venuta a sapere solo qualche tempo dopo il suo risveglio. Nella fretta di cercare i corpi tra le macerie e portarli fuori il più velocemente possibile, per scongiurare la possibilità che anche i soccorritori fossero bombardati, il corpo di Passant, che era priva di coscienza, era stato messo vicino ai cadaveri di sua madre, suo padre e gli altri due fratelli. Pensavamo fosse morta, l’avrebbero messa in un sacco e seppellita se Ahmed non si fosse accorto che ancora faceva dei piccoli movimenti, e salvandole la vita.Quando parla di Gaza, Passant ripete sempre la parola Janna, che in arabo significa paradiso, pensa a questo quando le tornano in mente le spiagge, e i suoi parenti, e la facoltà che avrebbe voluto frequentare per diventare dentista, ma ora non c’è più, distrutta come casa sua, e come la sua famiglia. «Dobbiamo fare ritorno a casa, anche se per un anno e mezzo c’è stato solo l’odore della morte, ora siamo noi sopravvissuti che dobbiamo tornare lì, a cominciare dal nord». Ahmed vorrebbe indietro la vita di prima, i suoi amici, le sue abitudini. Non si adatta alla vita da rifugiato in Qatar, anche se va a scuola tutti i giorni e tutti i pomeriggi gioca con altri bambini salvati come lui. Poi, dice Passant, la sera torna a casa, al terzo piano del complesso e intorno a loro non c’è più nessuno e resta muto per ore. E in lei la forza si trasforma in rabbia, tutta scritta sul suo volto segnato dalle ustioni.Quando ieri sera gli ha detto che erano finiti i bombardamenti, Ahmed le ha risposto: allora facciamo le valigie e torniamo a casa.
Anche con la fine dei combattimenti, per Gaza continuerà la conta delle vittime, dirette e indirette. La conta dei feriti, come i palestinesi di Thamama.A più di un anno di distanza, l’offensiva militare israeliana a Gaza ha provocato l’amputazione di migliaia di persone. A dicembre, dopo la sua ultima visita nella Striscia di Gaza, Louise Wateridge, coordinatrice senior delle emergenze per l’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi ha descritto la situazione sanitaria come «assolutamente disgustosa, perché il dolore e la sofferenza sono diventati la norma per i palestinesi». Secondo i dati delle Nazioni Unite, Gaza al momento ha il numero più alto di bambini amputati pro capite al mondo e «molti stanno perdendo gli arti, troppi stanno subendo interventi chirurgici senza anestesia» ha detto Wateridge.Secondo i dati dell’UNRWA incrociati con quelli dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), durante i 15 mesi di guerra circa 26.000 persone hanno subito lesioni che hanno cambiato la loro vita, che richiedono cioè costanti servizi di riabilitazione, in particolare per amputazioni e lesioni del midollo spinale. Numeri che confermano anche le stime dell’organizzazione non governativa Humanity & Inclusion secondo la quale i due terzi di coloro che sono stati ricoverati in ospedale hanno perso arti o hanno subito lesioni al midollo spinale.Già a maggio del 2024, una famiglia su cinque a Gaza riferiva di avere almeno un familiare disabile, dipendente dal sistema sanitario al collasso, dalle forniture mediche che non entrano; in questa catastrofe umanitaria anche gli arti che potrebbero essere ricostruiti vengono rimossi perché è l’opzione più semplice data la mancanza di rifornimenti medico-sanitari. Secondo l’Unicef dall’inizio del conflitto dieci bambini al giorno hanno subìto l’amputazione di un arto.
Anche Sanaq vuole tornare a casa. Vive a Doha con sua nipote Saden, che ha festeggiato il suo quarto compleanno ieri.Della famiglia intera non restano che loro. Tutti gli altri, il padre e la madre della bambina e i due fratelli gemelli Aina e Hima sono morti sotto un bombardamento israeliano nella zona di Shati a nord di Gaza. Quando l’edificio è stato bombardato sua nonna non era in casa, era nella strada di fronte, ha visto il fumo da lontano e ha detto: è casa mia. Ha iniziato a correre, hanno tirato fuori i corpi di due dei suoi figli, ma il padre e la madre di Saden sono ancora sotto le macerie. Lei gridava «dove sono i miei figli, dove sono?», poi ha visto la nipote con l’osso della gamba fuori dal corpo. Saden è stata ricoverata all’ospedale al-Shifa per 96 giorni, la sua gamba ferita si era infettata e i dottori hanno lottato per non amputarla. In quei tre mesi si è adoperata per aiutare medici e infermieri. Cucinava per loro il poco cibo che c’era. Si occupava dei pazienti sul pavimento, ammassati uno vicino all’altra. Ricorda che sosteneva le infermiere nel reparto dei bambini prematuri, perché anche le infermiere cominciavano a crollare, e poi puliva i morti. «Vedevamo i corpi accatastati fuori dall’ospedale, decomposti, oppure quelli ancora caldi che arrivavano dalle unità, sono tutti sepolti intorno allo Shifa».Dopo la fine dell’assedio dell’ospedale sono stati tutti sfollati e si sono spostati tre volte, a piedi. Dice Samaq: «Abbiamo camminato, abbiamo camminato molto, è stato come il giorno del giudizio».Poi sono arrivati a Khan Younis, e la gamba di Saden continuava a peggiorare, così hanno fatto richiesta per essere evacuati e sono scesi a Rafah e poi da lì in Egitto e in Qatar. Ora Saned ha bisogno di un altro intervento chirurgico perché la sua gamba è deforme. Quando chiede della mamma, del papà, e dei fratelli torna la parola Janna, paradiso. Lei guarda verso il cielo e sorride. Allora sua nonna le racconta di aver sognato entrambi, la mamma e il papà, che l’hanno visitata nel sonno rassicurandola che anche i fratellini siano in paradiso e di stare serena e tranquilla con la nonna. Samaq le dice di sognare i gemelli, talvolta, che giocano in paradiso. E lei, la piccola Saden, chiede se anche lei, quando tornerà a casa, potrà giocare come in paradiso.La nonna annuisce e dice che non vede l’ora, adesso di tornare a Gaza di certo, anche solo per tirare fuori il figlio e la nuora dalle macerie, cercare un po’ d’acqua, pulire i loro volti dalla sabbia, e dare loro una degna sepoltura. —