Corriere della Sera, 16 gennaio 2025
Intervista a Roberto Casamonti, gallerista fiorentino
Sotto un soffitto affrescato con ninfe e amorini Roberto Casamonti ci accoglie sulla poltrona più vicina alla finestra da cui sovrasta il centro di Firenze. Ci tende la mano ma il suo sguardo cerca Anna, la donna con cui sta da oltre vent’anni. Durante l’intervista la chiamerà più volte. «Stai qui, seduta accanto a me – le dice, e ci spiega – è la mia terza donna. Sa, io faccio le cose in grande. Ho avuto 3 mogli, aperto 4 negozi, un circolo del tennis e sei gallerie d’arte. Alzarmi al mattino e impegnarmi mi dà gioia. Farlo con lei è più bello. Anna mi segue nel lavoro – già prima che ci conoscessimo si occupava d’arte – mi vuole bene, mi assiste».
Roberto Casamonti, che Anna chiama solo Casamonti, fiorentino, 84 anni, non è un gallerista e un collezionista qualunque. È parte della storia dell’arte italiana del Novecento e del XXI secolo, compra e vende quadri e sculture a livelli altissimi, è il più importante collezionista di Lucio Fontana. È stato amico di Boetti e Dorazio, da bambino vedeva Rosai dipingere nel suo studio in collina. Il suo primo quadro lo ha comprato a 20 anni.
Del Novecento italiano, in collezione, ha quasi tutto. Ma ha anche un Picasso o dei Warhol. In città, un palazzo di via Tornabuoni, aperto al pubblico, contiene metà della sua collezione, «ne sto acquistando un altro che la conterrà tutta – ci dice – questo lo terrò per le mostre temporanee, farò come Palazzo Strozzi: tre appuntamenti l’anno». All’ingresso di casa tiene un Boetti di sei metri, di fronte un Dorazio grande altrettanto; a destra due bellissime donne con burqa di Ceroli. Altra stanza, altri capi d’opera: due opere di Vanessa Beecroft, un’altra di Marina Apolloni, l’immancabile Fontana. Oltrepassando un corridoio ci si imbatte in una cappella che, sola, vale la visita per la terracotta robbiana che troneggia sull’altare e i soffitti con affreschi di Bernardino Poccetti.
Più che un appartamento è un museo... quanto conta per lei la casa?«Casa è rifugio e intimità. Qui ci siamo trasferiti 5 anni fa. Prima stavo in collina, a Bagno a Ripoli, dove sono cresciuti i miei quattro figli, ma quando con Anna siamo entrati in questa casa non abbiamo potuto fare a meno di comprarla. Siamo in centro, accanto alla galleria di via Tornabuoni, attorno ci sono una ventina di ristoranti».
Qual è il suo angolo preferito?«La camera da letto. Dove ho un grande televisore e posso vedere le partite della Fiorentina».
Tifoso?«Purtroppo sì, anche se non mi dà tanta soddisfazione, ma si spera sempre. Fra l’altro mio figlio Marco è l’architetto che ha costruito il Viola Park».
Gli altri tre figli che fanno?«Leonardo si occupa dei negozi di arredamento. Michele e Ursula delle gallerie. Lui sta in Svizzera, lei si divide tra Londra e l’Italia».
Com’è lavorare con i figli?«Ci vuole molta diplomazia. Io li ascolto, però sono un uomo che non accetta prese di posizione sbagliate».
Mentre lei parlava al telefono ho visto la cappella. Ci va a pregare?«Io no, Anna sì».
Non è credente?«Sono cattolico ma con molti dubbi. Oggi le guerre mi scoraggiano. Sono nato nel 1940, ho vissuto 70 anni in un mondo in pace e ora si ritorna lì. L’uomo è proprio una testa di rapa. Improvvisamente nel mondo scoppiano 5, 6 guerre. Una cosa che mi dà angoscia».
Anche perché da bambino lei l’ha conosciuta la guerra. La ricorda?«Ricordo benissimo, eravamo sfollati da degli zii nella campagna fiorentina. Il venerdì veniva fatto il pane, spesso intorno a un tavolo si mangiava anche in 12 della polenta che si tagliava col filo. Lì era il focolare, loro erano contadini, zii da parte di mamma. Mio padre non c’era, è stato prigioniero in Albania. Stavamo a Ponte a Ema, il paese dove è nato Bartali. Da lì ho visto le colonne dei tedeschi fuggire via e gli aerei alleati che andavano a bombardare Montecassino».
Suo padre che lavoro faceva?«Il tappezziere, nel ’49 aprì un negozio di tessuti e arredamento in via Pietrapiana. Era un uomo energico. Mi ha insegnato a fare il commerciante nel dopoguerra, quando bisognava arrangiarsi per portare a casa il pane. Da lui ho imparato anche ad apprezzare l’arte. Nel 1950 venne in negozio un suo amico con un quadro di Rosai, poi gliene portò altri, dei De Pisis mi pare. Una volta, tornando da Torino, arrivò con una Maschera rossa di Casorati che poi ho ereditato e venduto. Mi piace molto Casorati, fa parte del ’900, come De Pisis, Rosai, De Chirico, Sironi, Campigli. Tutti artisti che ho conosciuto e collezionato, come anche Soffici e quanti frequentavano Firenze nel dopoguerra».
Ma il primum movens di questa passione qual è stato?«Rosai. Veniva in negozio e spesso si fermava a cena. Mio padre e lui parlavano e io, che avrò avuto 12, 13 anni, ascoltavo e assorbivo. Un giorno il babbo gli chiese un ritratto e così iniziarono i nostri pomeriggi nel suo studio a San Leonardo. Papà stava in posa e lui dipingeva in questo ambiente pieno di quadri accatastati e di trielina che usava per ammorbidire i colori. Quell’odore ha contribuito a farmi capire l’arte. Ce l’ho ancora quel ritratto del babbo, lo sa?».
Sì, è a Palazzo Salimbeni. Parli ancora di suo padre...«Sono entrato a lavorare dal babbo a 16 anni, era il ’56 e cominciai a vendere tappeti, materassi e lenzuola. Quando nel 1966 ci fu l’alluvione di Firenze tra noi si creò un disaccordo. Lui voleva smettere. Avevamo avuto danni terribili con l’acqua che aveva raggiunto i sei metri. Io avevo 26 anni e a quel punto gli dissi: “Se devi dare via il negozio dallo a me”. Per dieci anni gli ho pagato rate da 400 mila lire al mese. Ma è stata la mia fortuna. Quando ho riaperto una città intera venne in fila da me: tutte le case erano da rifare».
E intanto collezionava.«Sì, compravo quello che potevo permettermi. Dal ’66 all’81, quando ho aperto la prima galleria in via Tornabuoni, avevo già opere di Soffici, Dova, De Chirico, a cui si aggiunsero quelle del babbo: Sassu, Mugnier, tutti autori del Novecento che poi ho smesso di seguire, salvo forse Guttuso. Quello che però mi cambiò la vita è stato Fontana».
Racconti...«Nell’81 vidi una sua opera piccolina, l’apprezzai e la comprai. Dopo un po’ passò dalla galleria un grosso personaggio tedesco, la volle e mi disse che, se ne avessi trovate altre, avrebbe acquistato anche quelle. L’anno dopo gliene vendetti dieci o dodici. In arte l’innovazione è fondamentale e Fontana faceva cose mai fatte: un suo taglio è la quintessenza dello spazialismo. Genio puro. Mi ha preso così tanto che oggi sono il suo più grosso collezionista».
Poi c’è stato Alighiero Boetti...«Nel 1984 qualcuno mi parlò di lui. Così andai a Roma a incontrarlo per fare una sua mostra. Gli comprai 15 quadri e gli chiesi di regalarmene qualcuno. Lui ne mise da parte altri 3 da donarmi, ma non li ho mai visti. Boetti morì prima che partisse la sua personale. Ma intanto avevo quindici sue opere. Vendetti le sue mappe a 25 milioni di lire, ora valgono 6 milioni di euro».
E dopo Boetti?«C’è stato Dorazio, che era anche un amico. Sono stato tante volte a casa sua. Ricordo la sua prima moglie che lui tra l’altro trattava male. Quando lo conobbi, al Cipriani a Venezia, gli raccontai che avevo visto un suo quadro del ’37 con una giovinetta. Mi disse che gli sarebbe piaciuto riaverlo: costava 13 milioni, lo comprai e glielo regalai. Credo che fosse nell’86-87. Poi gli feci una mostra».
Cosa c’è di interessante oggi?«Alla fiera di Parigi ho comprato due marmi, due teste dipinte di Vezzoli, bellissime. Un altro che mi piace è Penone. Adesso c’è Calzolari che lavorerebbe volentieri con me, e non mi dispiacerebbe».
Del nostro ’900 e di fine ’800 ha quasi tutto. Fattori, Nomellini, Balla, Boccioni, De Chirico: un sogno nel cassetto?«Un Pellizza da Volpedo. Ce n’è uno che mi piace moltissimo. Se mi pagano un quadro lo posso comprare».