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 2025  gennaio 16 Giovedì calendario

Parla la mamma di un ostaggio istraeliano a Gaza

Gerusalemme «Non ho le parole per definire come mi sento in questo momento, e non ho più forza per cercarle. Mi scusi...». Mentre rispondeva al nostro messaggio, ieri sera, Sigi Cohen era al suo 467esimo giorno senza suo figlio Eliya, 26 anni, ostaggio da qualche parte nel buio di un tunnel, a Gaza. Da 467 giorni lei respira senza vivere, è sfinita, sgomenta. E in queste ultime ore è come se tutte le emozioni si fossero moltiplicate per mille. Adesso che l’accordo per la tregua e per liberare i primi 33 ostaggi è stato raggiunto, anche lei come tutti i famigliari dei rapiti ha il cuore in tempesta. Alcune indiscrezione dicono che Eliya è nella lista, ma Sigi ha sempre detto che «io non credo più a niente se prima non lo vedo venirmi incontro ad abbracciarmi».
L’altra volta, con il primo gruppo dei liberati, ogni famiglia è stata avvisata formalmente solo poche ore prima e dovrebbe essere così anche stavolta. Quindi, ammesso che suo figlio torni a casa, Sigi lo saprà in uno dei prossimi 42 giorni previsti per questa prima fase dell’accordo. «Posso solo pregare perché torni da me» dice lei con dolcezza.
L’altro giorno ha raccontato la storia di suo figlio a una platea raccolta in silenzio alla Hevrat Yehude Italia (la comunità degli ebrei italiani di Gerusalemme). Un racconto messo assieme con le parole di Ziv, che è la fidanzata di Eliya, con i ricordi, con i filmati visti in televisione, con le testimonianze di chi è uscito vivo dal festival Supernova...
«Quella mattina, quando ho capito che davvero avevano portato Eliya a Gaza non sapevo più cosa fare» dice Sigi. «Ricordo che giravo per casa dandomi degli schiaffi per tentare di svegliarmi. Mi dicevo: non è possibile, è un incubo. Svegliati!». Ricostruisce la mattina di morte fra i ragazzi della festa. «Eliya e Ziv erano arrivati lì alle 4.30 del mattino con il cugino di Ziv e la sua ragazza. Due ore dopo hanno cominciato a volare missili, la musica si è fermata bruscamente, tutti hanno iniziato a scappare. Loro quattro sono saliti in macchina e hanno preso la via per Tel Aviv, la famigerata 232 che aveva visto tutti nei notiziari di quei giorni mentre i terroristi sparavano alle auto di passaggio». Qualcuno li chiama: «Non fate quella strada e non state in macchina, nascondetevi».
Così quando vedono un migunit, un rifugio antiaereo di quelli vicini alle fermate degli autobus lungo le strade, si fermano ed entrano. «In uno spazio progettato per 10 persone erano in 27», ci dice Sigi. E alla fine, di quei 27, 16 sono stati uccisi, 4 rapiti e 7 sopravvissuti». Quel migunit è diventato tristemente noto perché è stato filmato da più prospettive quindi nei giorni dopo il massacro si è potuto vedere in vari video pubblicati online come andarono le cose esattamente. «Nel migunit c’era un ragazzo che ha detto agli altri: sono un soldato, se arrivano i terroristi farò di tutto per cercare di salvarvi», racconta Sigi. I terroristi arrivarono. «Ziv dice che erano su due furgoni e con la musica araba ad altissimo volume. Un uomo disse: io parlo arabo, vado a farli ragionare. L’hanno ucciso appena è uscito. Poi hanno cominciato a tirare granate dentro il migunit. Loro tiravano e il soldato le rilanciava fuori». Così per 7 volte, come mostrano i filmati.
«A quel punto i terroristi tirano prima un missile anticarro e poi entrano e sparano all’impazzata», è la ricostruzione di Sigi. «In tanti sono caduti addosso a Ziv che è rimasta sepolta dai cadaveri. È così che si è salvata, rimanendo immobile sotto tutti quei corpi. Lei riesce per un attimo a vedere Eliya ma poi lo sente urlare perché è ferito a una gamba e si rende conto che lo stanno trascinando fuori. È l’ultima immagine che mi è stata descritta di mio figlio ed è l’ultima immagine che Ziv ha visto prima di perdere i sensi. Poi il nulla: nessuno di chi è stato liberato ci ha detto di averlo visto o sentito. Ziv quel giorno ha ripreso i sensi alle 11, si è fatta strada fra i corpi dei morti e lo ha cercato per ore. Ma non c’era, c’erano però i corpi senza vita di suo cugino e della ragazza...». Sigi si ferma, caccia via le lacrime e continua: «Molti mi chiedono che cosa possiamo fare per farli tornare a casa? Io dico che si può tenere accesa la memoria della loro sofferenza e della loro condizione davanti al mondo intero. Dico che dobbiamo essere uniti, per riportarli a casa tutti. Fino all’ultimo».