Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  gennaio 15 Mercoledì calendario

In morte di Furio Colombo

Aldo Cazzullo per il Cds
Diceva l’Avvocato Agnelli che Furio Colombo aveva fatto molte cose, e le aveva fatte tutte bene. Giornalista, dirigente Olivetti, scrittore, capo dei programmi culturali della Rai, direttore dell’Istituto italiano di cultura a New York, presidente della Fiat Usa, deputato dell’Ulivo. Quando lo fecero direttore dell’«Unità», molti tra noi sorrisero; eppure fece bene anche il direttore dell’ «Unità».
Non l’ho mai visto di cattivo umore, lo ricordo sempre con il sorriso. Era arrivato – lucidissimo – a 94 anni alla Churchill, senza fare sport, sedendosi a tavola e ordinando prosciutto, mozzarella di bufala, vino. Eppure, l’allure di uomo di mondo, dal successo internazionale, davanti a cui si aprivano tutte le porte, nascondeva un uomo tormentato, complesso, sfaccettato.
Ad esempio il giovane Furio, di famiglia e di cultura ebraica, difensore della prima e dell’ultima ora di Israele, si era formato nell’Azione cattolica, braccio giovanile di una Chiesa militante, preconciliare, dove si cantavano canzoni per Pio XII: «Siamo araldi della fede, siamo arditi della croce/ a un tuo cenno, alla tua voce, un esercito all’altar». Lì aveva incontrato l’amico della vita, Umberto Eco.
Furio e Umberto entrano insieme in Rai, e insieme vanno ad abitare a Milano. Conoscono Goffredo Parise e Valentino Bompiani. Vanno a fare Capodanno a Parigi, Furio si fidanza ma il mattino dopo Umberto lo trova imbronciato a spasso lungo la Senna con la famiglia di lei, compreso il fratellino che lo marca stretto. Furio ha ventitré anni, ed è grassoccio; Eco, magrissimo. Le parti si invertiranno. Colombo viene mandato a Torino, a fare una trasmissione per ragazzi, Orizzonte. Prepara i testi che leggerà un giovane scelto per il suo bell’aspetto: Gianni Vattimo. Poi Furio va a Roma, a lavorare al primo telegiornale, diretto da Vittorio Veltroni.
Il primo gennaio 1957, giorno del suo ventiseiesimo compleanno, ha un appuntamento a Ivrea con Adriano Olivetti, che lo vuole con sé. Prende una camera in albergo accanto a quella di Paolo Volponi. Primo incarico, due mesi alla catena di montaggio, a produrre la calcolatrice Divisumma. Furio intrattiene gli operai raccontando i romanzi di Charles Dickens e Herman Melville; loro in cambio raccolgono i numerini che a volte lascia cadere, e completano il lavoro al posto suo. Poi un mese alle presse, dove si stampa la lamiera per le macchine da scrivere. Quindi tre mesi all’agenzia di vendita a Milano: porta a porta in negozi e piccole aziende, a vendere calcolatrici e mobili per ufficio.
Finito il tirocinio, Olivetti lo mette alla selezione del personale, accanto a Ottiero Ottieri, che sta scrivendo Donnarumma all’assalto, il romanzo dell’Italia del miracolo economico. Si cercano matematici e filosofi per costruire il primo computer, sotto la guida di Mario Tchou, geniale scienziato di origine cinese, che morirà in un misterioso incidente stradale.
Si formò nell’Azione cattolica, fu vicino
di casa di Arthur Miller e di Marilyn
Olivetti chiede a Furio di scegliere: o la costruzione del partito che ha in mente, o l’America, dove ha comprato la Underwood, una fabbrica di macchine da scrivere con 25 mila dipendenti. Lui sceglie l’America. Appena arrivato a New York, passa la notte a passeggiare nel bosco dei grattacieli. Vicini di casa, Arthur Miller e Marilyn Monroe. Poi lascia l’azienda per il giornalismo, intervista Che Guevara e Frank Sinatra, racconta la rivolta dei ghetti neri e gli assassinii di Martin Luther King e Bob Kennedy.
La sua è la generazione che ha come primo ricordo il fascismo, ha attraversato la guerra, ha respirato l’aria della ricostruzione, ha studiato seriamente alla scuola dei Bobbio e dei Galante Garrone, in una Torino dura e viva, e ha costruito le basi culturali dell’Italia del boom, quella vitale e superficiale del film Il s orpasso. Il suo grande scoop giornalistico fu l’ultima intervista a Pier Paolo Pasolini, che prima di andare a morire gli dettò anche il titolo: «Siamo tutti in pericolo». Fu Colombo, insieme con Oriana Fallaci, ad aprire la pista politica del suo omicidio, incredibilmente e ridicolmente attribuito al solo Pino Pelosi.
Nel 1996 entrò alla Camera vincendo un collegio uninominale di Torino, che univa quartieri popolari alle case dei ricchi in collina. Lui era a suo agio in entrambi i posti. Parlava dialetto piemontese con la stessa disinvoltura con cui padroneggiava l’inglese, anzi l’americano, con cui aveva conquistato la sua bellissima moglie, Alice. Aveva curiose passioni. Gli edicolanti: li conosceva tutti, era molto contrario alla vendita dei quotidiani nei supermercati, sosteneva che l’edicola fosse un presidio della democrazia. E gli zingari. Il suo comitato elettorale era sempre pieno di zingari, accolti all’inizio con timore dai volontari; ma Furio Colombo era da sempre un difensore di rom e sinti, lavorava per integrarli, passava loro piccole somme perché non andassero a rubare.
Era un vero liberal all’americana, deciso anticomunista. Per questo parve strano quando andò a dirigere «l’Unità», che fece benissimo, con un fascione rosso che strillava la frase del giorno, spesso qualche enormità dei berlusconiani più zelanti. Da giornale di partito divenne il giornale dei girotondi, facendo penare non poco il povero Piero Fassino. Considerava il suo capolavoro di deputato l’istituzione del Giorno della Memoria, per ricordare la deportazione degli ebrei e anche gli internati militari in Germania; ma sosteneva la necessità di custodire allo stesso modo la memoria degli infoibati e degli esuli dalmati, istriani, giuliani.
Muore con Furio Colombo una certa Italia che non c’è più, preparata, aperta, sorridente, per cui la cultura non era un privilegio ma una ricchezza da condividere. Gli si perdonava volentieri il vezzo della vanità, perché era una persona buona, di tratto elegante e di animo gentile.

***
L’intervista a PasoliniQuesta intervista ha avuto luogo sabato 1° novembre 1975, fra le quattro e le sei del pomeriggio, poche ore prima che Pasolini venisse assassinato. Alla fine della conversazione, che spesso, come in passato, ci ha trovati con persuasioni e punti di vista diversi, gli ho chiesto se voleva dare un titolo alla sua intervista. Ci ha pensato un’ po’, ha detto che non aveva importanza, ha cambiato discorso, poi qualcosa ci ha riportati sull’argomento di fondo che appare continuamente nelle risposte che seguono. «Ecco il seme, il senso di tutto – ha detto -. Tu non sai neanche chi adesso sta pensando di ucciderti. Metti questo titolo, se vuoi: “Perché siamo tutti in pericolo"».Pasolini, tu hai dato, nei tuoi articoli e nei tuoi scritti, molte versioni di ciò che detesti. Hai aperto una lotta, da solo, contro tante cose, istituzioni, persuasioni, persone, poteri. Per rendere meno complicato il discorso io dirò” la situazione”, e tu sai che intendo parlare della scena contro cui, in generale ti batti. Ora ti faccio questa obiezione. La situazione con tutti i mali che tu dici, contiene tutto ciò che ti consente di essere Pasolini. Voglio dire: tuo è il merito e il talento. Ma gli strumenti? Gli strumenti sono della situazione. Editoria, cinema, organizzazione, persino gli oggetti. Mettiamo che il tuo sia un pensiero magico. Fai un gesto e tutto scompare. Tutto ciò che detesti. E tu? Tu non resteresti solo e senza mezzi? Intendo mezzi espressivi...
«Sì, ho capito. Ma io non solo lo tento, quel pensiero magico, ma ci credo. Non in senso medianico. Ma perché so che battendo sempre sullo stesso chiodo può persino crollare una casa. In piccolo un buon esempio ce lo danno i radicali, quattro gatti che arrivano a smuovere la coscienza di un Paese (e tu sai che non sono sempre d’accordo con loro, ma proprio adesso sto per andare al loro congresso). In grande l’esempio ce lo dà la storia. Il rifiuto è sempre stato un gesto essenziale. I santi, gli eremiti, ma anche gli intellettuali. I pochi che hanno fatto la storia sono quelli che hanno detto di no, mica i cortigiani e gli assistenti dei cardinali. Il rifiuto per funzionare deve essere grande, non piccolo, totale, non su questo o quel punto, “assurdo”, non di buon senso. Eichmann, caro mio, aveva una quantità di buon senso. Che cosa gli è mancato? Gli è mancato di dire no su, in cima, al principio, quando quel che faceva era solo ordinaria amministrazione, burocrazia (...). Allora i discorsi sono tre. Qual è, come tu dici, la situazione, e perché si dovrebbe fermarla o distruggerla. E in che modo».
Ecco, descrivi allora la situazione. Tu sai benissimo che i tuoi interventi e il tuo linguaggio hanno un po’ l’effetto del sole che attraversa la polvere. È un’immagine bella ma si può anche vedere (o capire) poco.
«Grazie per l’immagine del sole, ma io pretendo molto di meno. Pretendo che tu ti guardi intorno e ti accorga della tragedia che non ci sono più esseri umani, ci sono strane macchine che sbattono l’una contro l’altra. E noi, gli intellettuali, prendiamo l’orario ferroviario dell’anno scorso, o di dieci anni prima e poi diciamo: ma strano, ma questi due treni non passano di lì, e come mai sono andati a fracassarsi in quel modo? O il macchinista è impazzito o è un criminale isolato o c’è un complotto. Soprattutto il complotto ci fa delirare. Ci libera da tutto il peso di confrontarci da soli con la verità. Che bello se mentre siamo qui a parlare qualcuno in cantina sta facendo i piani per farci fuori. È facile, è semplice, è la resistenza. Noi perderemo alcuni compagni e poi ci organizzeremo e faremo fuori loro, o un po’ per uno, ti pare? Eh lo so che quando trasmettono in televisione Parigi brucia tutti sono lì con le lacrime agli occhi e una voglia matta che la storia si ripeta, bella, pulita (un frutto del tempo è che” lava” le cose, come la facciata delle case). Semplice, io dì qua, tu di là. Non scherziamo sul sangue, il dolore, la fatica che anche allora la gente ha pagato per “scegliere”. Quando stai con la faccia schiacciata contro quell’ora, quel minuto della storia, scegliere è sempre una tragedia. Però, ammettiamolo, era più semplice, il fascista di Salò, il nazista delle SS, l’uomo normale, con l’aiuto del coraggio e della coscienza, riesce a respingerlo, anche dalla sua vita interiore, (dove la rivoluzione sempre comincia). Ma adesso no. Uno ti viene incontro vestito da amico, è gentile, garbato, e “collabora” (mettiamo alla televisione) sia per campare sia perché non è mica un delitto. L’altro – o gli altri, i gruppi – ti vengono incontro o addosso – con i loro ricatti ideologici, con le loro ammonizioni, le loro prediche, i loro anatemi e tu senti che sono anche minacce. Sfilano con bandiere e con slogan, ma che cosa li separa dal potere?».
Che cos’è il potere, secondo te, dove è, dove sta, come lo stani?
«Il potere è un sistema di educazione che ci divide in soggiogati e soggiogatori. Ma attento. Uno stesso sistema educativo che ci forma tutti, dalle cosiddette classi dirigenti, giù fino ai poveri. Ecco perché tutti vogliono le stesse cose e si comportano nello stesso modo. Se ho tra le mani un consiglio di amministrazione o una manovra di Borsa uso quella. Altrimenti una spranga. E quando uso una spranga faccio la mia violenza per ottenere ciò che voglio. Perché lo voglio? Perché mi hanno detto che è una virtù volerlo. Io esercito il mio diritto-virtù. Sono assassino e sono buono».
Ti hanno accusato di non distinguere politicamente e ideologicamente, di avere perso il segno della differenza profonda che deve pur esserci fra fascisti e non fascisti, per esempio fra i giovani.
«Per questo ti parlavo dell’orario ferroviario dell’anno prima. Hai mai visto quelle marionette che fanno tanto ridere i bambini perché hanno il corpo voltato da una parte e la testa dalla parte opposta? Mi pare che Totò riuscisse in un trucco del genere. Ecco io vedo così la bella truppa di intellettuali, sociologi, esperti e giornalisti delle intenzioni più nobili, le cose succedono qui e la testa guarda di là. Non dico che non c’è il fascismo. Dico: smettete di parlarmi del mare mentre siamo in montagna. Questo è un paesaggio diverso. Qui c’è la voglia di uccidere. E questa voglia ci lega come fratelli sinistri di un fallimento sinistro di un intero sistema sociale (...)». —
•GIANNI RIOTTA Per RepÈ il 1962, la cantante Joan Baez cerca qualche soldo per produrre una canzone del suo nuovo boyfriend, Bob Dylan, per i diritti servono 500 dollari, oggi circa 5000, nessuno è disposto a tirarli fuori, se non il giovane italiano Furio Colombo – morto ieri a Roma a 94 anni – che il geniale imprenditore Olivetti ha spedito a New York per cogliere idee nuove: Furio stacca un assegno senza chiedere nulla in cambio e nasce la classica ballata
Blowin’ in the Wind. 1968, la Rai invia Furio Colombo ad Hanoi, per raccontare la guerra in Vietnam durante l’offensiva del Tet, il Capodanno lunare, le immagini in bianco e nero impressionano lo stesso leader della Democrazia Cristiana Aldo Moro, ma il giornalista non fa in tempo a tornare in Italia, perché i Beatles decidono di recarsi nel nord dell’India, vogliono meditare con il guru Maharishi Mahesh al santuario di Rishikesh. Incenso, corone di fiori, nenie nell’ashram, Lennon, Harrison, McCartney, Ringo Starr, mogli, amici, groupie e Furio Colombo a girare per i viali, con operatore e taccuino.
Nel 1963, invece, scoop mancato con l’intervista a Martin Luther King (recuperata nel 1967): il giorno dell’appuntamento perTV7 il reverendo nero, leader dei diritti civili viene arrestato in Alabama dalla polizia razzista. Per il servizio Furio Colombo incontra lo sconosciuto braccio destro di King, Andrew Young, futuro sindaco di Atlanta e ambasciatore all’Onu, scoop e amicizia per la vita.
Giornalista, dal leggendarioMondo di Mario Pannunzio, aLa Stampa, Repubblica, Unità eFatto, scrittore e romanziere con lo pseudonimo di Marc Saudade, raziocinante critico nel tumulto dell’avanguardia Gruppo 63, ma anche uomo d’azienda, dopo Olivetti sarà presidente della Fiat Usa chiamato da Gianni Agnelli. «Scelsi Furio perché accanto ai manager, Gabetti, Garraffo, Ghidella, Gubitosi, ci serviva un intellettuale. Colombo alza il telefono e chiama il senatore Ted Kennedy, l’ambasciatore vanden Heuvel è suo amico e andando all’aeroporto JFK ti spiega chi sono gli ultimi artisti dei murales e dei graffiti» ricordava compiaciuto l’Avvocato.
Docente alla Sorbona, Barnard College e Columbia University – sui banchi incontrerà l’adorata moglie Alice Oxman, scrittrice e attrice per Fellini in Roma, la figlia Daria è una importante ricercatrice –, poi direttore dell’Istituto di Cultura a New York, con il socialista Gianni De Michelis a piegare i dubbi del Dc Giulio Andreotti per la nomina, Furio Colombo porta Oriana Fallaci nella townhouse su Park Avenue, poi Susan Sontag, la saggista Usa, quindi il fraterno amico Umberto Eco e la coda per le conferenze si snoda lungo isolati, lasciando perplessi gli aristocratici della zona: «This Furio is unstoppable». Quindi la politica, il parlamento, persuaso a tu per tu da Walter Veltroni, e il moderato Colombo lascia posto a un polemista irriducibile contro i governi di Silvio Berlusconi. «Eppure» ricorderà ridendo Colombo «all’alba della sua avventura da magnate tv Berlusconi venne a trovare me e Umberto Eco a New York, “Siete esperti di comunicazione, voglio sentire il vostro parere”. Gli parlammo per due ore, ci ringraziò, tornò a Milano, fece l’opposto dei nostri suggerimenti e nacque il suo boom».
Da deputato, Colombo lavora all’americana, gira per i quartieri di Torino, casa per casa si informa dei bisogni e quando dirigeràl’Unità con Antonio Padellaro ne farà foglio di polemiche e campagne stampa. Qualcuno dei vecchi torinesi storce il naso, Furio ripensa a King e ai diritti civili e va avanti. Businessman, inviato, autore, deputato, direttore in ciascuna delle tante vite di Colombo il tratto comune è la generosità. Paolo Mieli, allora direttore del Corriere della Sera, ricorda: «Ricevevo tante richieste di raccomandazione, spesso per figli di personaggi e vip, solo Furio mandava curriculum di studenti poveri, disoccupati, gente semplice e piena di talento». Al Century Club, il circolo più prestigioso di New York, Colombo porta alla esclusiva sala da pranzo dei soci il borsista squattrinato della Fulbright, la studentessa di architettura della Statale, Matteo Pericoli, debuttante designer e figlio del pittore Tullio.
Al ragazzo che gli chiede una lettera di referenza per l’università Ivy League, Furio Colombo dà appuntamento alla presentazione del suo libro più importante, Il Dio d’America, tra flash, grandi firme, ministri, docenti, star del cinema. «La chiamerò!», promette, passando il curriculum ad Alice e si allontana nella folla plaudente. Il ragazzo va a casa deluso, tre giorni dopo riceve la telefonata della mitica segretaria Fiat al Seagram Building, Carmela, «Le passo il presidente!» e Colombo conferma l’ammissione all’ateneo desiderato.
Compagno di film, Il caso Mattei, e di cene in via Gregoriana a Roma del regista Franco Rosi, a caccia di idee in casa di Eco al Castello Sforzesco a Milano, con l’architetto Pierluigi Cerri, il musicista Luciano Berio, amico degli esordi in Rai, al tavolo con CarloDi Palma, direttore della fotografia di Antonioni e Woody Allen, Furio Colombo non si fermava al conformismo e allo status quo: sperimentare il futuro era per lui laboratorio quotidiano.
Sui valori, invece, l’antifascismo, la democrazia, la giustizia contro le dittature, il Furio garbato e gentile lasciava il posto a un irriducibile uomo della sinistra raziocinante, incapace di compromessi, viltà, opportunismi. Un ricordo collettivo non deve lasciar posto a sentimenti e memorie private, faccio eccezione per una volta, per ricordare le valigie affiancate di Eco e Colombo in viaggio, allegro disordine per Umberto, ordine perfetto per Furio, coetanei, Capricorno, opposti e gemelli sempre; le chiacchiere con lui e Andrea Barbato in riva al mare, incerti se tornare alla spiaggia della loro gioventù; il concertino con opera dei pupi che Furio Colombo, Umberto Eco, Alice Oxman, Renate Eco e Luciano Berio improvvisano a Pasqua per mio figlio Michele, suonando clarino e flauto, incrociando marionette, cantando, con Di Palma a scattare foto e dare a tutti il ciak.
«Abbiamo avuto il dono di parlare alle persone – insegnava Furio Colombo – ma non dobbiamo dimenticare che sono loro il soggetto, non noi, sono loro a contare e fare la storia, noi siamo testimoni e cronisti, umili», perché, come allora, le risposte soffiano nel vento.
***
MARCO BELPOLITI PER REPTre sono state le passioni di Furio Colombo: il giornalismo, la letteratura e l’America (la quarta poi, la politica, del giornalismo è in effetti la continuazione con altri mezzi). Anche se è vero che Colombo ha iniziato come autore di programmi culturali e giornalistici alla Rai insieme a Umberto Eco e al gruppo degli allievi di Luigi Pareyson all’Università di Torino (Gianni Vattimo), non era un filosofo, veniva piuttosto dagli studi di legge. Di certo la letteratura è stato il filo sottotraccia di tutta la sua attività di scrittura, per quanto la sua professione di narratore sia stata discontinua.
Possiamo però vederne le tracce nei saggi e nella stessa attività giornalistica: in ogni suo scritto egli manifesta il piacere di raccontare storie, insieme al bisogno di mettere a punto idee e pensieri su ciò che scrive, aspetto cui non è estranea la frequentazione di Eco e del Gruppo 63. Di questa aggregazione di autori Colombo ha fatto parte tanto da essere annoverato tra i fondatori. Nel primo incontro a Palermo nell’ottobre del 1963, Furio Colombo non figura tra gli scrittori del Gruppo, che presentano i propri testi secondo un’abitudine tipica di questi convegni: chi legge viene sottoposto al fuoco di fila dei presenti e dei critici (Renato Barilli, Angelo Guglielmi e Francesco Leonetti). L’anno seguente il raduno è invece a Reggio Emilia, dove Colombo porta un suo racconto a fianco di Nanni Balestrini, Corrado Costa, Alfredo Giuliani, Giuliano Scabia e molti altri. Nel 1964 esce il suo primo romanzo presso Feltrinelli, intitolato Le donne matte,nella collana “I Narratori”. In copertina una fotografia dell’autore rigorosamente in giacca e cravatta, l’aria seria e l’immancabile paio di occhiali neri da vista. Libro sperimentale, e a suo modo onirico, ha per protagonista una voce narrante assediata dal ticchettio di una macchina da scrivere. Lui stesso scrive ed è affiancato da una misteriosa donna di nome Mary. Si tratta di un flusso di coscienza che attinge a Joyce e agli scrittori francesi dell’epoca.
Ma dopo questo romanzo sarà il terzo amore, l’America, a occupare il centro dei suoi interessi editoriali. Esce L’America di Kennedy(1964), sempre presso Feltrinelli, cui seguono altre opere sugli States, che s’intrecciano con le attività lavorative legate alla Fiat americana, ma anche alle corrispondenze giornalistiche da quel paese.
A prevalere sarà quindi un altro oggetto: la tv, cui è dedicato il suo insegnamento nel neonato Dams di Bologna, dove insegna il linguaggio televisivo, uno dei primi a farlo in Italia, quando a occuparsi di questo medium erano in pochi, tra questi Luciano Bianciardi. In quel contesto Furio Colombo aveva assorbito attraverso Eco i temi della nascente semiologia, compresi i francesi come Roland Barthes, sebbene la sua riflessione abbia sempre come riferimento la cultura americana.
In questo decennio la sua prosa cambia in parte il passo stilistico, e nascono opere comeIpertelevision (1976), edito dalla Cooperativa Scrittori, casa editrice creata dagli ex appartenenti al Gruppo 63 (Luigi Malerba, Antonio Porta, Angelo Guglielmi, Alberto Arbasino e altri). Nel 1984 con lo pseudonimo di Marc Saudade pubblica invece un primo romanzo presso Mondadori intitolato Bersagli mobili. Un cambiamento stilistico e di trame davvero inatteso, dal momento che racconta storie del nuovo colonialismo occidentale e delle organizzazioni internazionali, come la stessa Onu. Segue poi L’ambasciatore di Panama del 1985, che ruota intorno alle malefatte della piccola repubblica centroamericana. Il terzo romanzo spionistico si intitola El Centro ed è del 1987, sempre da Mondadori, cui segue il racconto breve Trappola a Hong Kong. Per qualche anno la vera identità dell’autore di questi romanzi di spionaggio rimane sconosciuta. È intervistato, come se esistesse davvero uno scrittore con questo nome, su varie testate, compresa Repubblica con Enrico Filippini.
Negli anni precedenti Furio Colombo aveva del resto scritto saggi sugli agenti segreti e lo spionaggio. Umberto Eco, suo vecchio sodale, sospettato dopo il successo del Nome della rosa d’essere l’autore di queste storie piene di nefandezze, dedica una delle sue Bustine di Minerva sull’Espresso al “caso Saudade” (1987).
Pur sapendo perfettamente chi si celi sotto lo pseudonimo, Eco si diverte ad analizzare le tecniche narrative di Saudade e a descrivere il «dolente cinismo» dei suoi romanzi: il punto di vista è quello di una vittima divenuta complice dei carnefici. L’orrore, scrive Eco, viene raccontato da un oppresso «che ci sta, e senza rimorsi». Non solo non svela il vero nome dello scrittore, ma non fa neppure cenno alla sua origine ebraica, così importante per il suo fedele amico Furio Colombo.
Con il suo istinto di giornalista e di scrittore non mancherà ancora di intervistare Pier Paolo Pasolini, in passato così polemicamente e duramente avverso al Gruppo 63. Furio Colombo arriva a casa sua nel pomeriggio di sabato primo novembre 1975. Gli pone domande dirette su quanto sta accadendo in quel momento in Italia. Il poeta risponde e gli detta il titolo della conversazione: “Perché siamo tutti in pericolo”. La mattina del 2 novembre PPP è trovato morto in uno spiazzo a Ostia.