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 2025  gennaio 15 Mercoledì calendario

La terza vita politica di Benjamin Netanyahu inizia adesso, tra la tregua a Gaza ieri e l’inaugurazione di Donald Trump lunedì prossimo

La terza vita politica di Benjamin Netanyahu inizia adesso, tra la tregua a Gaza ieri e l’inaugurazione di Donald Trump lunedì prossimo. Egli è già il leader più longevo alla guida di Israele. Nell’acqua che ha visto passare sotto i ponti si contano cinque Presidenti americani – Clinton, GW Bush, Obama, Trump, Biden e di nuovo Trump – e innumerevoli capi di governo europei e internazionali. Solo Vladimir Putin gli tiene testa: lo supera in durata al Cremlino ma senza mai affrontare la giungla delle elezioni israeliane, rigidamente proporzionali, e della frammentazione partitica della Knesset, dove le maggioranze di coalizioni plurime e acrobatiche sono aggrappate a un voto o poco più. Si apre ora una nuova stagione segnata dalla fine della guerra contro Hamas, all’interno, e dalla nuova (e vecchia) presidenza americana all’esterno.
Sul ritorno di Trump alla Casa Bianca il primo ministro israeliano aveva scommesso sfacciatamente, con l’irrituale visita a Mar-a-Lago in settembre in piena campagna elettorale americana. Scommessa vincente contro le tante perdenti fatte su Bibi. Nessuno avrebbe scommesso su di lui dopo il suo primo disastroso premierato, quando nell’ottobre del 1997 la copertina dell’Economist lo bollò come «il pasticcione seriale di Israele» («Israel’s serial bungler»). Dopo la sconfitta elettorale dal laburista Ehud Barak del 1999 e la lunga eclissi alla guida del Likud dietro ad Ariel Sharon prima e ad Ehud Olmert poi, durata fino al 2009. Dopo che una rivolta coalizzata di forze politiche lo aveva estromesso nel 2021, per le brevi successioni di Naftali Bennet e Yair Lapid. Soprattutto dopo il tragico 7 ottobre del 2023, quando l’incursione di Hamas massacrò 1195 persone, fra israeliani e stranieri, e prese 251 ostaggi dei quali circa la metà ancora in cattività.
Quand’anche gli errori di intelligence e di sicurezza non siano direttamente imputabili al primo ministro – in Israele il dibattito è aperto – l’attacco di Hamas rappresentò un fallimento della sua politica che si fondava sull’assunto di avere il Movimento islamico di Resistenza sotto controllo dentro la prigione a cielo aperto della Striscia. Malgrado i soldi dal Qatar e le armi contrabbandate dall’Iran, incoraggiati gli uni, tollerate le altre, Hamas era ritenuto incapace di nuocere se non per gli inefficienti razzi dai quali Israele era capace di difendersi con i rifugi e l’Iron Dome.
Il 7 ottobre cambiò radicalmente l’equazione. Ma non smosse di un centimetro Benjamin Netanyahu. Altri, al suo posto avrebbero dato dimissioni come fece Golda Meir dopo la guerra del Kippur del 1973, per un simile fallimento di intelligence. Non Bibi. Il quale incassò l’iniziale crollo di popolarità e seppe ribaltare la situazione.
La risposta di Israele al massacro del 7 ottobre ha: distrutto Hamas a Gaza, pur ad un costo altissimo di vittime palestinesi e di distruzione della Striscia; sconfitto Hezbollah in Libano; sferrato un pesante colpo alle difese aeree dell’Iran; con la complicità (involontaria? casuale?) del Hayat Tahrir al-Sham Mohammed Ghazi Jalali, liberato lo Stato ebraico della minaccia posta dal regime pro-Iran di Bashar Assad e delle milizie di Hezbollah in Siria.
Pazienza le condanne internazionali. Da vinto Netanyahu si è fatto vincitore, e non c’è nulla più della vittoria che incuta più rispetto in Medio Oriente. Non ha obliterato Hamas che è ancora in grado di imporgli condizioni, fra cui la liberazione di un migliaio di prigionieri palestinesi, ma l’ha decapitato e ridotto ai minimi termini. A questo punto, egli può permettersi la tregua a Gaza anche, e soprattutto, perché gliela chiede Donald Trump, dopo averla negata per mesi a Joe Biden.
La tregua precede l’ingresso di Trump a 1660 di Pennsylvania Avenue ed è, tecnicamente, opera dell’amministrazione uscente, ma è stata fortemente voluta e chiesta dal presidente eletto che vuole iniziare il secondo mandato con almeno una delle due principali crisi internazionali se non risolta almeno disinnescata – all’altra (Ucraina) penserà lui con Putin… Da qui però per Netanyahu si apre un nuovo scenario. Da una parte, egli è in una posizione regionale di forza e può contare a Washington su molti amici nella nuova amministrazione. A partire dal presidente (non che alla Casa Bianca ci siano mai stati Presidenti anti-Israeliani).
Ma nel Medio Oriente trasformato in buona parte ad opera sua non ci sono rendite di posizione. Dall’altra infatti, è alle prese, e lo sa, con l’imprevedibilità di Donald Trump. Su due nodi Netanyahu e Trump potrebbero non essere esattamente in sintonia: condizioni pro-palestinesi (i “due Stati") richieste dall’Arabia Saudita per aderire agli accordi di Abramo; cosa fare con l’Iran sulla questione nucleare, patteggiare con Teheran o bombardare i siti nucleari? Trump non vuole altre guerre; Netanyahu non esita a farle. Bibi è sopravvissuto a tanto, Donald pure: sarà una bella gara. —