14 gennaio 2025
In morte di Oliviero Toscani
Langone per il Foglio
Nessuno tocchi Caino, nessuno tocchi Oliviero Toscani (che all’associazione radicale “Nessuno tocchi Caino” previdentemente aderiva). Se è vero ciò che è scritto in Genesi 4,15, ed è senz’altro vero, nessuno maledica il grande fotografo appena morto. Nemmeno io lo farò. Nonostante Toscani nel 1971 abbia firmato la lettera contro il commissario Calabresi (“avallo al successivo assassinio” scrisse Giampaolo Pansa), nel 1973 abbia immortalato un bel culo facendolo parlare come Gesù Cristo, nel 1991 abbia pubblicizzato dei maglioni mediocri fotografando un prete e una suora che si baciano (uno dei vertici del suo nichilismo ghignante), nel 2006 abbia realizzato una campagna pro Sodoma (pro adozione omosessuale), nel 2019 abbia definito Papa Giovanni Paolo II “un assassino” perché contrario al preservativo, nel 2023 abbia detto “per fortuna Berlusconi è morto. Sono felice che non ci sia più, felicissimo”. A Dio il giudizio.
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Giulia Zonca per Sta
Buona luce: così Oliviero Toscani dedicava i libri, con il saluto tra fotografi e il nome di un movimento ambientalista tedesco. Ora lo si può dire a lui, che se ne va a 82 anni per colpa di una malattia rara. Dopo una vita di unicità pure l’addio l’ha deciso un disturbo fuori dal comune, l’amiloidosi che ammacca gli organi con un accumulo di proteine e nell’ultimo anno gli ha tolto quaranta chili e qualsiasi sapore. Non la visione, che resta anche dopo di lui.
Fotografo, autore, non creativo, parola che detestava e smembrava quando qualcuno tentava di spacciarla per mestiere: «Se cerchi idee non ne avrai mai». Trenta baci per un amore, quello di sua madre, uno short sul sedere della fidanzata per un successo, quello della prima pubblicità dei jeans firmata nel 1973, diventata il motore di una carriera che lo ha sempre messo in imbarazzo. Era la sola condizione in cui Toscani poteva lavorare, lontano da qualsiasi sicurezza e zona franca, affidato alla tecnica e allo studio costante per non inciampare nei propri eccessi e comunque destinato prima o poi a farlo, perché corteggiare il fastidio per l’intera esistenza senza rimanerne assuefatti è impossibile. Eppure, solo davanti a una tragedia, allontanata per rinnegarne qualsiasi assurda e irreale parentela, è scivolato nella provocazione, caduto nella volgarità, elementi che invece, per decenni di autentica professionalità, ha evitato con preparazione e coraggio. Con originalità e conoscenza.
Nato durante la guerra, nel 1942, la madre, da neonato, lo infilava nel cartone della pasta per trasportarlo in fretta quando suonavano le sirene delle bombe. Il padre era uno dei primi fotoreporter del Corriere della Sera, ma non si può dire che Toscani abbia seguito quella strada. Ha studiato alla scuola d’arte di Zurigo, corsi specifici, maestri del Bauhaus. Ai giovani che si vedevano pubblicitari o fotografi diceva «studiate filosofia e psicologia, padroneggiate la tecnica, allenatevi all’estetica, imparate almeno quattro lingue, viaggiate. Non vi illudete mai che esista la formula estro e sregolatezza. Questo è un lavoro, il resto chiacchiere». Un manifesto perfetto che comunque non porterebbe mai da solo ai suoi risultati.
Inizia con una rivoluzione, la trova in giro, senza sforzi. Negli Usa dove si trasferisce presto, nelle canzoni di Bob Dylan «che a 19 anni era già vecchio», nelle minigonne, nell’aria che si respira, nell’economia che si espande. È il 1965 e quel giovane Toscani non ha alcun interesse a definirsi ribelle. Solo che quel momento di piazze piene e libertà in circolo, di coscienza in divenire, di possibilità infinite si esaurisce e allora, per operare nella rivolta che gli è congeniale, gli tocca costruirsene una in proprio. Un catalogo di alternative a partire proprio dai jeans con le chiappe in evidenza e la scritta «Chi mi ama mi segua». Lo slogan arriva dopo aver puntato lo sguardo in alto, ai cartelloni di Times Square che invitavano a Jesus Christ Superstar, i jeans si chiamano esattamente così: Jesus. Scrive di loro pure Pasolini «Più famosi dell’uomo a cui hanno preso il nome». Da lì è Oliviero Toscani, il primo a capire che la pubblicità insegna più dell’educazione civica «a usare i soldi dei ricchi per una buona causa con il loro permesso».
Il sodalizio con Benetton ne definisce la traiettoria, l’unione inizia nei primi Anni Ottanta, si fa esclusiva, estrema, sfrontata, mai fine a se stessa. Sono campagne promozionali, vendono e non si vergognano di farlo, però reclamizzano messaggi che la maggioranza ignora. Toscani ha un’immagine per l’Aids, una per la fame nel mondo, per la parità, per l’inclusione, per la pena di morte e in quell’occasione sfida i sentimenti e si muove in bilico tra ciò che sveglia e ciò che urta. I cartelloni dei condannati a cui il suo obiettivo restituisce dignità sono appesi in formato gigante nelle comunità dove hanno ammazzato e stravolto. Ma non c’è traccia di perdono o di sollievo, solo l’umanizzazione di persone senza più un futuro e per quanto la scelta sia choccante non riabilita i colpevoli, mette in questione la sentenza. Con Benetton osa, si interroga, si mette in discussione con le suore che baciano i preti, l’ironia sulla chirurgia plastica che toglie identità: «Ci sono così tante vie al bello e bisogna essere davvero limitati per vederne solo una e presentarsi dal chirurgo con l’esempio del nasino ideale, andateci con un ritratto di Picasso e dite voglio essere così». Mescola le persone, non lo stile, sempre molto riconoscibile e diretto che il soggetto sia Federico Fellini, i Måneskin, Marcell Jacobs o Ali, nome che ha dato alla figlia e particolare connessione tra l’esperienza professionale e la vita privata, sempre protetta. Nella biografia pubblicata per gli 80 anni, Ne ho fatte di tutti i colori, la moglie (la terza) e i sei figli stanno solo nei ringraziamenti.
Sempre in alleanza con l’amico Luciano Benetton, apre il centro di ricerca «Fabrica», inventa la rivista dedicata alle immagini Colors, insiste a fissare chiunque gli stia davanti, fa la sua indagine visiva con Razza umana: più di 80 mila scatti con persone di età, sesso e provenienza differenti. Definisce l’anoressia con i contorni crudeli di una magrezza senza speranza e ritrae i superstiti della strage di Sant’Anna di Stazzema dando spessore ai ricordi, «ciò che non si vede si dimentica, senza foto l’olocausto sarebbe vittima dei negazionisti». La disciplina lo salva e lo promuove fino al giorno in cui crolla il ponte Morandi e lui chissà che voleva sostenere con la risposta cinica «a chi importa?». Benetton, allora azionista di maggioranza della società Autostrade, considerata responsabile del disastro, lo licenzia, lui chiede scusa ma è impossibile comprendere che ci fosse dietro quelle parole indicibili. Forse un salto nel vuoto e nel buio, senza un’immagine guida, solo la voglia di scappare dall’idea che i morti potessero avere ben meno di sei gradi di separazione da lui. Un attimo di oscurità per ottant’anni di ottima luce. E quelli ci teniamo, senza ipocrisie, con lo stesso rigore che praticava lui davanti alla realtà. —
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MICHELE SMARGIASSI per Rep
Papà Fedele (che è un bel nome, per un fotografo) gli mise in mano una Leica e gli disse: «Se vedi qualcosa di interessante, scatta». Oliviero Toscani aveva quattordici anni e per la prima volta accompagnava suo padre, fotoreporter della Publifoto, su un servizio difficile: la tumulazione della salma di Mussolini a Predappio. Nel caos di quella giornata tesissima, il piccolo Oliviero intravvide il volto di una dolente avvolta in un velo nero, sorretta da due carabinieri. Era donna Rachele. In camera oscura, poche ore dopo, Fedele ammise: «Oggi la foto giusta l’hai fatta tu». Finì sul Corriere della sera e sui giornali internazionali.
Eppure, il fotoreportage non fu il destino del piccolo Oliviero dall’occhio acuto. La fotografia sì, studiata in Svizzera da Johannes Itten, maestro del Bauhaus. «Io sono un fotografo, perché racconto il mio tempo. Ma un fotografo non è un cameraman, è lo sceneggiatore, il soggettista, il direttore della fotografia, lo scenografo, il tecnico delle luci, il regista, e alla fine è anche il cameraman».
Toscani è stato un fotografo extra- vagante. Ha spaccato i generi e ne ha creato uno suo, fra immagine di impresa, pubblicità, promozione sociale. Qualcuno continua a chiamare “pubblicità” quelle immagini scandalose, il bacio fra la suorina e il pretino, l’anoressica scheletrica, l’angioletto bianco e il diavoletto nero, solo perché in alto a sinistra c’era il talloncino verde “United Colors of Benetton”. Erano invece un nuovo genere di comunicazione, emotiva, civile, finanziata da un imprenditore e portata al pubblico saltando gli spazi dell’informazione e invadendo un canale improprio ma potentissimo: gli spazi della pubblicità, appunto.
Toscani è stato molto detestato, soprattutto dai suoi confratelli d’arte. Solo uno lo difese, ma un grandissimo, James Nachtwey: «Queste pubblicità possiedono più contenuti delle pagine editoriali dei magazine in cui vengono pubblicate». L’accusa, sempre la stessa: è vergognoso usare la sofferenza per fare pubblicità ai maglioncini. Certo, Luciano Benetton voleva vendere i suoi maglioncini: ma quando conobbe (attraverso Fiorucci) quell’irruente autocentrato, già celebre fotografo di moda (sognava Harper’s Bazaar, lavorò per Elle,e per Voguecon cui litigò), che aveva scoperto le future top model prima di tutti, da Monica Bellucci a Naomi Campbell, quel fotografo di “spavalda intelligenza”, reduce da campagne pubblicitarie di enorme successo(della sua “blasfema” pubblicità per i Jeans Jesus, “Chi mi ama mi segua”, per la quale utilizzò il fondoschiena della sua compagna di allora, Donna Jordan, scrisse perfino Pasolini), tutte fatte senza agenzie e senza teorie; bene, Benettoncapì che poteva aiutarlo a identificare la propria immagine aziendale con alcuni valori: antirazzismo, mondialità, umanità. Come per dire: «Noi vendiamo maglioncini, ma intanto vogliamo dirvi qualcosa sul mondo, come lo vediamo noi». Se lo portò dalle sue parti e gli fece inventare negli anni Novanta quella fucina eterodossa di idee che è stata Fabrica (di cui Toscani offrì a Fidel Castro la direzione creativa), con il suo magazine fuori da ogni genere, Colors.
Fu, a suo modo, una critica alla civiltà delle immagini, ai suoi luoghi comuni, alle sue ipocrisie. Non andò così liscia: il sodalizio fra Toscani e Benetton si incrinò (la campagna contro la pena di morte rischiò di rovinare gli investimenti Benetton negli Stati Uniti), si ricompose, si ruppe definitivamente. Alla fine, l’equilibrio precario della grande provocazione crollò su sé stesso. Il sistema si dimostrò più resistente di quanto Toscani si aspettava.
Lui, irritato tra i cavalli americani e i vini col suo nome sull’etichetta, eremita nel suo casolare in Maremma, fece spallucce. Difficile sconvolgere un idealista disincantato, un teorico senza teorie. Un situazionista, che si è divertito di più aépater le bourgeois con i suoi “aforismi fotografici” che ad atteggiarsi a ideologo. Per lui la fotografia non aveva vangeli, era “più laica che Leica”. Nonostante tutti i libri aforistici e aneddotici che ha scritto, non è mai esistito un Toscani- pensiero. Umanista misantropo, coniò un motto e lo attribuì apocrifamente a Gramsci: «Per il popolo puoi morire ma non puoi viverci insieme».
Però volle fotografarlo, il popolo anonimo, montando una tenda nelle piazze italiane e ritraendo i passanti per il suo progetto Razza Umana. Vicino ai radicali, Toscani non è mai stato uomo di ideologie strutturate, piuttosto di intuizioni, a volte colpi geniali a volte polemici vicoli ciechi. Ma qualcuno doveva pur fare la parte del bad boy.Alla fine, fece una scelta: farle tutte. «Non c’è distinzione: fotografare è etica, politica, commercio, morale, estetica. Chi fa solo una di queste cose non è un fotografo».
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FRANCESCO MERLO PER REP
Ese poi scopri che Dio esiste? «Lo fotografo e te lo mando per WhatsApp». Rideva di tutte quelle interviste «da moribondo» che si era messo a rilasciare:«Quando davvero morirò, di me diranno: ma Toscani non era già morto?». Il faccione smagrito e non rasato, la luce giallo-arancione smorzata, la maglietta stazzonata, l’espressione da “poverocristo”: era ancora e sempre l’Oliviero il regista di sé stesso, di quelle immagini di sé malatissimo che, come tutte le sue fotografie, avevano stupito l’Italia perché contenevano il suo stupore, lo stesso dei condannati alla sedia elettrica che aveva fotografato nelle carceri americane.
Era lo stupore per il corpo da omone che diventava sempre più esile e traballante, per le matasse di grinze che la malinconia increspava, per i solchi di rassegnazione sulla faccia che si è rasserenata solo alla fine, nell’ospedale di Cecina, dove, sedato dalla morfina, è morto il fotografo più famoso del mondo, il grande italiano che l’Italia non ha capito. L’Oliviero, che era bello avere per amico, se n’è andato dopo avere fotografato lo stupore della propria morte. Manca solo – gli dissi – che tu detti il tuo epitaffio. «Eccolo: “È stato bello”». Oliviero, quante volte hai fotografato lo stupore? «Un milione, dieci milioni, cento milioni, chissà, tu conti i tuoi respiri?». Trovami uno stupore che, frugando nel passato, stupisce ancora il tuo cuore. «Lo stupore di Andy Warhol quando gli feci assaggiare il panettone e non capiva perché lo mangiamo solo a Natale. Lo stupore di Marco Pannella che, ormai stremato, poco prima di morire si era messo a parlare con i gabbiani che vedeva dalla finestra: “Ciao belli, ciao belli”. Sembrava un capo indiano. Ricordi? L’abbiamo trovato che dormiva e l’ho fotografato con la bocca aperta dal sonno. Anche io adesso sembro un capo indiano». Lo stupore della malattia lo aveva addolcito. Gli aveva tolto il gusto di fare, ogni tanto, l’antipatico. E per esempio, quando usava le stampelle, non diceva più a chi gli chiedeva un selfie che «l’undicesimo comandamento è non scocciare il prossimo»; non spiegava più alle signore incinte che «non c’è nulla di più banale della gravidanza». A volte diventava sgarbato e la gente non capiva, non poteva capire, che era addolorato perché vedeva tatuaggi, unghie laccate, facce rifatte, tacchi 12: «All’Aldo», il grande parrucchiere Aldo Coppola, «che è stato il fratello che la mamma non mi aveva dato – solo sorelle: ho avuto tre mamme – l’idea di abolire i caschi, le torture dello scafandro, gli orrori dei bigodini e delle cotonature, gli era venuta al mare, scoprendo con stupore com’erano più belle le donne quando uscivano dall’acqua, bagnate, liberate e spettinate. Oggi sono tornate a imbruttirsi, si odiano e vandalizzano il proprio corpo. Non può essere questo il femminismo».
Una volta a Fabrica, nei bellissimi edifici di Tadao Ando, diede le spalle a una manager che gli aveva detto, «wow, che location!»: «Location a chi?». E trascinò con sé Luciano Benetton, «che è stato il compare con il quale non ci fu mai un minimo contrasto, solo la soddisfazione di sentirci sempre l’uno degno dell’altro». Gli dissero, arrabbiati, che aveva un brutto carattere quando, a un tipo che gli aveva chiesto «le dà fastidio il fumo?», rispose «e a lei dà fastidio se scoreggio?». Eppure gliel’aveva spiegato bene, e non sempre lo faceva: «La scoreggia disturba, ma non fa male al prossimo». Oliviero non si meravigliava che, non solo sui social debordanti e senza regole, qualcuno lo svillaneggiava anche dopo che si era ammalato: «Almeno non sono ipocriti. Chissà invece i begli articoli che scriveranno gli ipocriti quando davvero sarò morto. Mi piacerebbe leggere il commosso rimpianto di quelli che da vivo mi volevano morto. Promettimi che scriverai: Oliviero era uno stronzo. E che racconterai la mia vita come una risata durata 82 anni».
Aveva ragione. Ridere era il suo modo di affrontare il pericolo, le emozioni e lo stupore, «come il Mangiafuoco di Pinocchio che, invece di piangere, starnutisce». L’ho visto ridere sull’aereo in forte turbolenza e pure al mare quando, uscendo dall’acqua, gli cedettero le gambe. Rideva quando gli telefonai dal bar Jolly di Donoratico dove non poteva più venire a mangiare il gelato: «Prendi per me il solito cono di stracciatella e fallo sciogliere al sole». E rideva quando mi diede «i numeri da giocare al superenalotto, quando sarò morto, al tabaccaio di Donoratico» dove un paio di volte avevamo giocato e dove ora li giocherò.
Per mesi lo stupore della malattia mortale gli aveva persino impedito di memorizzare la parola amiloidosi. «Non mi entra in testa» diceva, lui che parlava cinque lingue. E allora gli portai l’audio di Vittorio Gassman che recitava L’uomo dal fiore in bocca.Bastava sostituire epiteliomacon amiloidosi e mettere il cuore al posto della bocca: «Amiloidosi si chiama. Pronunzi, sentirà che dolcezza: amiloidosi. La morte, capisce? è passata. M’ha ficcato questo fiore in cuore, e m’ha detto: “Tientelo, caro: ripasserò fra otto o dieci mesi!”». Ebbene, dopo otto o dieci mesi di quasi totale digiuno e di «non neposso più», a Capodanno era tornata a Oliviero la forza e dunque lo stupore di vivere. In inglese si chiamathe surge,ed è in medicina laterminal lucidity,l’ultimo regalo che ti fa la vita. La voce non più impastata era di nuovo squillante e gli venne persino voglia di mangiare tre ostriche, che fu il suo cenone, come neicapodanni che avevamo festeggiato insieme a Parigi io e Hilary e Oliviero e Kirsti, «la donna – mi ripeteva ancora, e con la solita risata d’emozione, quando già sapeva della fine – più bella e intelligente, più generosa e più buona del mondo». Un giorno, alla brasserie Stella, ci accolsero con afflitta costernazione: «
Monsieur
Toscani, cette année, toutes les huîtres Belon sont malades».
A Parigi era uno spasso andare in giro con lui, perché lo riconoscevano e lo fermavano. Era più amato in Francia che in Italia dove ancora adesso, per ridimensionarlo o forse per esorcizzare il suo genio urticante, catalogano come “provocazione” lo stupore del neonato attaccato al cordone ombelicale, del bimbo bianco che si nutre al seno nero, della suora che bacia il pretino, del famoso sedere dei jeans Jesus. Quel «chi mi ama mi segua» è come il dito che mostra la strada verso Dio, un indice sentenzioso d’eternità che la gerarchia cattolica nel 1973 condannò come blasfemia ma che un giorno, ormai vicino, onorerà come un’immaginetta.
In Italia la volgarità ridanciana ancora sghignazza quando vede un pene, una vagina, un sedere, un amore lieve e gentile tra due ragazzi che si tengono per mano, e non si accorge dello stupore della normalità e della spiritualità che ci sono nelle foto che fece agli organi sessuali messi in fila, tutti uguali e tutti diversi. Altro che provocazione, nelle immagini di Oliviero ci sono l’amorevolezza, la dolcezza, i sentimenti forti e fragili della reciprocità e della solidarietà, c’è la potenza dell’arte civile.
Oliviero non sopportava più che il corpo disobbediente non gli permettesse di alzarsi, di uscire di casa e di trascinarci tutti nelle sue pericolose avventure aeropittoriche in macchina, Pisa-Milano andata e ritorno in giornata a 200 all’ora. Si lamentava che la malattia fosse riuscita dove i carabinieri avevano fallito quando gli ritirarono la patente: «Allora andavo in giro con la mia seconda patente, quella americana, adesso due gambe americane di riserva non ce le ho». E rideva: «Forever young diBob Dylan ha meritato il Nobel per la Letteratura, ma non per la Medicina». E di nuovo, rideva. E ancora rideva quando, da irregolare che aveva spazzato via i luoghi comuni, smontato i pregiudizi, dissacrato i sacramenti, veniva consacrato negli stessi musei che espongono Francis Bacon e Pablo Picasso.Oliviero rideva perché tra il museo e la strada aveva sempre preferito la strada, e invece adesso, genio dei manifesti murali e dei paginoni sui giornali di carta, gli toccava stare tra i quadri. «Vogliono l’opera omnia, figurati»: l’opera omnia venduta e incorniciata e imbalsamata sul muro di casa. «La foto è snaturata quando è travestita da dipinto o da installazione». E se anche qualcuno riuscisse davvero a raccoglierle, tutte le sue foto non farebbero il “tutto Toscani” per collezione. Ne state sentendo e ne sentirete ancora tante, perché di meravigliose corbellerie sulla fotografia se ne dicono davvero troppe ma, credetemi, sulla foto il pensiero di Oliviero era questo: «La foto è gratis, basta scaricarla da internet, perché la riproduzione di una foto è ancora foto e non la sua patacca come accade con le copie della Gioconda. Una foto della Gioconda non è una copia, non è un surrogato, non è un’imitazione, non è un falso: è una foto. Compri il giornale che la stampa e guardi la foto, la consumi, se ti piace la conservi, ma non compri la foto. Perché la foto è democratica, è di tutti, anche se non a tutti rivela lo stesso segreto».
E allora, per non fare diventare anche le sue foto-scandalo foto d’arte numerate, firmate e appese al chiodo, quando lo convincevano, a Milano, a Chiasso, a Parigi, a Zurigo, ne faceva proiettare trentamila in ordine casuale – una shuffled playlist – nel piccolo spazio di una mostra che, come il cielo in una stanza della canzone italiana, non aveva più pareti ma immagini, immagini infinite, tutte le foto di Toscani che sempre facevano scandalo perché mettevano sotto gli occhi di tutti quello che nessuno voleva vedere e che ora arredano il mondo.
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Aldo Grasso per il Cds
Quando Pasolini difese la pubblicità «blasfema» di Toscani
In ricordo di Oliviero Toscani. Siamo nel 1973 e Oliviero Toscani firma, nel suo stile inconfondibile, le pubblicità dei jeans a marchio italiano Jesus assieme ai copywriter Emanuele Pirella e Michael Goettsche dell’agenzia Italia. La campagna si compone di due immagini con relativo claim.
La prima riprende il busto androgino di un modello con i jeans sbottonati che lasciano intravedere in penombra il pube senza biancheria e recita: «Non avrai alcun jeans all’infuori di me».
La seconda mostra le natiche semicoperte della modella Donna Jordan. Lo slogan recita: «Chi mi ama, mi segua». La pubblicità dei jeans Jesus, che nasce come un gioco irriverente e provocatorio, genera scalpore e la storia si tinge di censura da parte di magistratura, politica, cultura e ovviamente della Chiesa. L’accostamento di frasi, tratte dalle Sacre Scritture con fotografie chiaramente provocanti, generano un effetto esplosivo. In realtà, la frase «Chi mi ama mi segua» non è una citazione dal Vangelo ma un’esortazione pronunciata dal re francese Filippo il Bello durante una battaglia.
Quella del Vangelo di Matteo dice: «Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua».
Il 17 maggio 1973, l’Osservatore Romano taccia tutta la campagna e i suoi ideatori di blasfemia. Il giorno seguente, alla sede di Agenzia Italia si presenta un maresciallo della Buoncostume, su mandato del pretore palermitano Vincenzo Salmeri, per sequestrare i manifesti e le fotografie relative alla pubblicità. Ricorda Oliviero Toscani: «Perché i tempi erano quelli. L’Osservatore Romano montò su una polemica pazzesca. Per dieci giorni fummo accusati di tutto, e meno male che non c’erano i social. Poi, una mattina, Maurizio Vitale mi telefona tutto contento: “Oliviero, vai a comprare il Corriere, c’è un articolo di Pier Paolo Pasolini che ci difende”. Aveva scritto che il Gesù dei jeans batteva quello del Vaticano. Da quel giorno cambiò tanto, in Italia».
In realtà Pasolini disprezzava anche il nuovo potere prodotto dalla pubblicità, ma che la polemica fosse finita sul Corriere significava che Toscani aveva fatto centro.
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Luciano Benetton a Daniele Manca Corriere
«L’accordo era chiaro, diretto, come era sempre stato: sentiamoci quando posso. Era così, diretto. Di carattere. Anche farsi vedere, da tutti, pubblicamente, come era diventato, con 40 chili in meno. Non negare la realtà, l’evidenza, i fatti. Oliviero era questo. La sua etica era questa. La sua creatività era profondamente legata alla realtà. Per quanto essa fosse sgradevole». Luciano Benetton si aspettava questo momento. Aveva sentito Oliviero Toscani in questi ultimi mesi. Avrebbe voluto andare a trovarlo. «Ma Oliviero non aveva mai voluto. Mi diceva più avanti, adesso non è il momento. Quando lo chiamavo rispondeva o subito o magari dopo qualche giorno, quando riusciva. Camminava poco, doveva farsi aiutare... Sperava e tutti noi speravamo. E invece questo è il momento peggiore». Chi conosce Luciano Benetton sa che pesa e centellina le parole, ma che è altrettanto chiaro e diretto. E anche «in questo momento» si riesce a capire come sia potuto accadere che la potenza di Oliviero Toscani si sia dispiegata anche grazie a un nome e a un’azienda che non si è mai tirata indietro.
Non avete mai tremato di fronte a colossi come gli americani Sears che negli anni Novanta dettavano il gusto con i loro department stores e che tolsero i vostri prodotti dalle loro catene? Come facevate?
«Avevamo la certezza di quello che stavamo facendo. Oliviero aveva anche un modo ironico di lavorare, ci occupavamo di grandi temi ma avevamo anche una sorta di leggerezza che ci veniva dalla convinzione di ciò che proponevamo al mondo. Un mondo sicuramente diverso da quello nel quale viviamo oggi». Nel 1998 un catalogo di un’azienda di abbigliamento finisce sulla scrivania di Giovanni Paolo II, su quelle di capi di Stato. Quell’azienda è Benetton. In milioni di copie sarà distribuito in allegato con il Corriere della Sera, Le Monde, Frankfurter Allgemeine. È forte la scelta di Newsweek di mandare nelle caselle della posta, funzionava ancora così nel secolo scorso, dei suoi abbonati « Enemies ». Era un catalogo di abbigliamento ma le foto erano quelle di giovani ragazzi israeliani e palestinesi nel loro agire quotidiano. La pace che diventava realtà.
Erano anni nei quali si voleva cambiare il mondo, pieni di speranze, cadevano muri...
«Non si trattava di cambiare il mondo ma intanto di cominciare a raccontarlo per quello che era... La personalità di Oliviero permetteva tutto questo. Per noi si trattava di affrontare situazioni anche non facili. Persino legalmente dannose. Ma con lui era semplice. È sempre stato un mio punto di riferimento. Una persona che c’era».
Ma a partire da quando?
«Negli anni Ottanta ci frequentavamo con Elio Fiorucci. Io cercavo un creativo, un fotografo che fosse in sintonia con l’idea di andare oltre con le campagne per singolo Paese, che avesse lo sguardo largo. Una sera dell’82, a cena mi presenta Oliviero. È così che è iniziata». Ed è così che nel giro di qualche anno arrivano le campagne con i ragazzi di tutte le razze, bianchi, neri, indiani d’America, ragazzi e ragazze con gli occhi a mandorla, fotografati con maglioni e magliette colorati.
Di recente abbiamo parlato
di come questi tempi attuali non hanno
più colori
Erano appunto anni diversi, persino Gorbaciov si accorge di voi. Aprite un negozio a Sarajevo in piena guerra.
«Sì, certo. Ma alla base c’era anche questa voglia di far capire che il mondo era più largo di quanto si immaginasse. C’era anche la volontà mia, dell’azienda di non aver a che fare con campagne specifiche per singoli mercati, ma parlare al mondo intero con delle foto, con una campagna unica. E per questo che con Oliviero abbiamo viaggiato in lungo e in largo per il mondo. Da Tokyo a Johannesburg e all’Australia».
Viaggi lunghi, intercontinentali...
«In quegli alberghi, su quegli aerei il rapporto si fa più solido. Diventa amicizia. Non siamo più l’imprenditore che commissiona la campagna al creativo. La creatività di Oliviero non è fine a se stessa. È legata alla realtà». Sono gli anni Novanta nei quali nasce una rivista come Colors che a partire da valori come la pace, la comprensione tra i popoli, avrà la forza di organizzare a Johannesburg una mostra, una rassegna culturale nelle settimane che precederanno le prime elezioni libere. Quelle alle quali voteranno anche i neri. E che Oliviero Toscani renderà emblematica con quella foto che mostra un atleta bianco e uno nero che si scambiano il testimone in una staffetta.
Ma vi siete anche trovati in difficoltà, come a Parigi quando Oliviero Toscani all’insaputa di tutti mette un gigantesco preservativo su un obelisco.
«Come le dicevo a volte non era facile, occorreva rischiare un po’ di più ma ne valeva la pena. Certo, c’erano immediate ripercussioni sul nostro nome a volte con polemiche aspre da un lato ma anche con premi prestigiosi dall’altro per la stessa campagna. Ma si sbaglierebbe a pensare che fossero solo provocazioni».
Ci presentò Fiorucci a cena, era il 1982 Io cercavo un creativo dallo sguardo ampio, iniziò così
Per provocare provocavano: lei nudo su manifesti giganti con lo slogan «Ridatemi i miei vestiti» con la Caritas a fare da testimonial, una suora che bacia un prete...
«Vero, ma Oliviero e noi volevamo che ci si spingesse oltre una campagna come quelle a cui eravamo abituati, che so di un’automobile o di un prodotto. Volevamo essere unici in ogni parte del mondo. E cosa unisce le persone nel mondo se non i valori? Se non la realtà?».
Anche se significa pubblicare la maglietta e i pantaloni insanguinati di un soldato morto nella guerra dei Balcani, o le campagne sull’Aids?
«La prova che si colpiva nel segno, che si faceva discutere era nelle reazioni non sempre e non tutte positive da parte delle stesse associazioni che combattevano l’Aids. Ma l’affrontavamo. Come si può innovare se non si sperimenta? Se non si dà a un creativo come Oliviero la possibilità di esprimersi? L’aspirazione era di mostrare quello che si vedeva, le esperienze. E se c’era da correggere correggevamo. Se c’erano difetti li superavamo. Al fondo c’era però anche la consapevolezza di fare qualcosa che fosse rilevante».
Poi però succede qualcosa...
«Poi il mondo cambia. Pensi a questo quarto di secolo. L’impressione attuale è di vivere in un mondo senza colori rispetto a quei colori che con Oliviero volevamo mettere assieme. Chiacchieravamo di questo negli ultimi tempi, ma gli parlavo anche del suo straordinario coraggio nell’affrontare una malattia come quella che lo ha colpito. Speravo che la sua forza con le cure che aveva intrapreso fossero in grado di portarlo fuori dal guado».
Ma non voleva che andasse a trovarlo...
«Quello che ci legava andava al di là delle cose che facevamo assieme. Ci divertivamo. Sì, ci divertivamo. Non c’era niente di semplice. Ma forse il divertimento con lui era proprio questo, continuare a provarci. Non fermarsi mai, quali che fossero gli ostacoli».
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Elvira Serra per il CorriereOliviero Toscani ci ha lasciato alle 3 del mattino di ieri, avrebbe compiuto 83 anni il 28 febbraio. Si è spento in una stanza della Terapia intensiva dell’ospedale di Cecina, dove era ricoverato da sabato dopo lo choc settico per una infezione della colecisti. Fino alla fine ha potuto ascoltare le canzoni che amava, di Bob Dylan e di Lucio Dalla. Un anno e mezzo fa gli era stata diagnosticata l’amiloidosi e aveva perso 40 chili. È in quelle condizioni che lo avevamo incontrato alla fine di agosto, quando aveva voluto parlare della malattia e si era fatto fotografare, mostrandosi vulnerabile. «Non ho paura di morire. Basta che non faccia male. E poi ho vissuto troppo e troppo bene, sono viziatissimo. Non ho mai avuto un padrone, uno stipendio, sono sempre stato libero», ci aveva detto nella «tana del lupo», la dépendance della sua residenza a Casale Marittimo, nella Maremma Toscana, circondato da memorabilia di incontri con personaggi famosi, campagne pubblicitarie iconiche, poster di mostre che hanno fatto la storia.
Durante le vacanze di Natale, trascorse a casa con la moglie Kirsti, mamma dei suoi tre figli più giovani (Rocco, Lola e Ali), aveva ripreso a mangiare con gusto, passando dalla cioccolata con la panna al panettone, di cui era ghiotto. Alla fine, aveva messo su quattro chili. Nessuno si aspettava questo sgambetto.
C’è un’immagine fermata dal cardiologo Michele Emdin della Fondazione Monasterio di Pisa, che lo ha avuto in cura. Oliviero bacia l’ultimogenita Ali. È un momento privato, che colma la ritrosia di un padre avaro di effusioni: dalla madre aveva ricevuto cinquanta baci in tutta la vita.
Ora che tutti sentono il vuoto lasciato nella storia della fotografia e del costume, fanno ancora più effetto le parole del cardinale Gianfranco Ravasi, che del loro incontro ha ricordato «l’inattesa sintonia-simpatia, la diversità di prospettive creativa». Cosa resta di lui, al di là delle opere che sta censendo il Politecnico di Torino con Promemoria Group, è la storia di un figlio d’arte (Fedele Toscani, fotografo del Corriere della Sera, aveva immortalato i corpi di Benito Mussolini e di Claretta Petacci in piazzale Loreto), che non si era messo in competizione con il padre, ma aveva cercato un altro modo di raccontare le cose.
Oliviero Toscani la scuola la seguì a modo suo, preferendo passare le mattine al cinema a imparare le lingue guardando film americani e francesi. Ma è all’Università delle Arti di Zurigo, con maestri come Karl Schmid, Franz Zeier, Serge Stauffer, che imparò «a fare pipì in modo diverso», come scrisse nell’autobiografia per la Nave di Teseo, Ne ho fatte di tutti i colori. Da Andy Warhol a Lou Reed, da Fidel Castro a Muhammad Ali, lui non li aveva solo fotografati: li aveva frequentati. A noi disse che voleva essere ricordato «per l’insieme, per l’impegno: non è un’immagine che ti fa la storia, è una scelta etica, estetica, politica da fare con il proprio lavoro». «O hai una prospettiva, la tua, o non ne hai nessuna», aveva scritto. E dalla sua prospettiva, negli Anni 60 fotografò le ragazzine indemoniate al concerto dei Beatles a Milano e le studentesse vestite da marinarette per una campagna dell’Eni (strappò 300 mila lire a foto, una Fiat 500 ne costava 540 mila). Per la Pan Am girò il mondo tre volte e fu il primo fotografo pendolare tra l’Europa e l’America. Perfino quando con Kirsti si trasferì in Toscana, negli Anni 80, dalla cabina telefonica di Casale Marittimo riusciva a organizzare trasferte ovunque. Lavorò con Anna Wintour. Fotografò Claudia Schiffer, Naomi Campbell e Cindy Crawford quando non erano nessuno. E portò una 17enne Monica Bellucci a Parigi. Restano iconiche certe sue campagne di moda. «Chi mi ama mi segua», per Jesus Jeans, scomodò sul Corriere Pier Paolo Pasolini. Per il progetto «Tutti i colori del mondo», poi United Colors of Benetton, fece indossare i maglioni colorati a eschimesi, bantu, scandinavi, asiatici e americani. Una rivoluzione nata dal sodalizio professionale che si trasformò in amicizia fraterna con Luciano Benetton. Mentre fece il giro del mondo la foto della modella anoressica Isabelle Caro, ritratta nuda per la campagna «No Anorexia». Ma se chiedevate a lui di quale fosse più orgoglioso, rispondeva con il lavoro a Sant’Anna di Stazzema per i 60 anni dell’eccidio.
Provocatorio, contrario al politicamente corretto, alcune uscite gli procurarono violente critiche. Come quando a Un giorno da pecora, a proposito del Ponte Morandi, se ne uscì: «A nessuno interessa che caschi un ponte». Intendeva: «Chi mai poteva guadagnarci da una tragedia simile?». Ma il danno era fatto.
Oliviero Toscani lascia 16 nipoti e sei figli: Alexandre, Olivia, Sabina, Rocco, Lola e Ali, nati da tre donne diverse. Di Kirsti, l’amore di una vita, scrisse: «È la persona che mi conosce di meno sulla faccia della terra, forse per questo penso che mi ami».