il Fatto Quotidiano, 14 gennaio 2025
Chiesta la revisione dai legali di Vanni e Lotti. Dubbi anche dei pm sul proiettile decisivo
La richiesta di revisione processuale è stata depositata sabato presso la Corte dell’Appello di Genova. È un dossier di 350 pagine, comprensive di consulenze e allegati, che sostiene una versione alternativa clamorosa su uno dei più grandi misteri italiani, i delitti del Mostro di Firenze: i “compagni di merende” Mario Vanni e Giancarlo Lotti – membri di un gruppo che ruotava intorno a Pietro Pacciani – sarebbero in realtà innocenti. A sostenerlo sono gli avvocati del nipote di Vanni, Valter Biscotti e Antonio Mazzeo, convinti di avere in mano nuove prove in grado di ribaltare quel processo, o almeno di insinuare dubbi sulla solidità della sentenza: “È una battaglia di civiltà giuridica – spiega Biscotti – qualcuno si deve assumere il compito di eliminare i detriti che anche in un processo penale impediscono la ricerca della verità. Dopo 30 anni certi processi si vedono meglio, anche grazie alla scienza”.
C’è una sola verità giudiziaria acquisita a quarant’anni dalla scia di sangue che terrorizzò Firenze e l’Italia intera: nel 2000 la Corte di Cassazione condanna all’ergastolo Mario Vanni e a trent’anni Giancarlo Lotti. Secondo i giudici sono i complici del principale sospettato, Pacciani, in almeno quattro dei duplici omicidi attribuiti al Mostro. Pacciani è stato trovato morto in casa, prima della sentenza definitiva. Era stato condannato in primo grado, assolto in appello, decisione contro cui la Procura aveva fatto ricorso. A portare su di lui i sospetti della Sam, la squadra antimostro guidata dal superpoliziotto Ruggero Perugini, erano stati vari elementi. Pacciani è un contadino di Mercatale, conosciuto con il nomignolo di Vampa, per i suoi scatti d’ira e perché una volta, per fare lo smargiasso a una festa di paese, si è bruciato improvvisandosi mangiafuoco. In gioventù è stato in carcere per aver ammazzato l’amante della fidanzatina: dopo averli sorpresi insieme, prima uccide lui e poi stupra lei, accanto al cadavere. Dal 1985, quando la serie di delitti impressionante del Mostro si arresta improvvisamente, Pacciani è in galera, dove sta scontando una condanna per aver violentato le figlie. È un violento, Pacciani, un maniaco sessuale e un guardone: ammette di spiare le coppiette, ma nega di averne uccise. A convincere i pm sono però alcuni oggetti che gli vengono trovati in casa, e soprattutto una pallottola che Perugini in persona gli trova nell’orto, compatibile con l’arma del Mostro.
Il profilo di Pacciani è inquietante, ma molto distante dalla profilazione fatta fino a quel momento da Fbi e consulenti della Procura di Firenze, secondo cui l’autore di quei delitti – sette fra il 1974 e il 1985; otto se si aggiunge un altro duplice omicidio, di cui però c’è già un colpevole, e sarebbe collegato agli altri solo dalla stessa arma – sarebbe un killer seriale e solitario, dotato di intelligenza raffinata, in grado di sfidare polizia e magistrati, con tratti di iposessualità: nessuna delle vittime è stata oggetto di violenza sessuale, la spiegazione per i criminologi è che l’autore trarrebbe la massima eccitazione dagli omicidi.
Con la morte di Pacciani si apre un processo bis, basato sulle dichiarazioni autoaccusanti di un “pentito”: Giancarlo Lotti, che chiama in causa un terzo soggetto, Mario Vanni. Con Pacciani facevano insieme le “merende”, autodefinizione che diventerà un’etichetta per quell’improbabile comitiva di assassini di paese. Se era difficile pensare che Pacciani potesse aver fatto tutto da solo, quei tre insieme sono persino meno credibili. Lotti, detto Katanga, è un disoccupato oligofrenico. Vanni, postino alcolista, soprannominato Torsolo, ciò che si butta della mela, per descriverne la mancanza di acume. La sentenza Vanni-Lotti è accompagnata dalle polemiche: la Procura generale di Firenze sconfessa i pm e chiede l’assoluzione. I giudici accolgono la tesi della Procura.
Ma cosa è cambiato e cosa si può ancora scoprire oggi? Il dossier dei difensori della famiglia Vanni ha due elementi forti, che vanno entrambi in direzione della demolizione della credibilità di Lotti. Il primo arriva dai progressi dell’entomologia forense. Due consulenze, firmate da Fabiola Giusti e Stefano Vanin, retrodatano uno dei delitti descritti in modo più dettagliato da Lotti: quello di Jeanine Nadine Mauriot e Jean Kraveichvilj, avvenuto l’8 settembre del 1985 a San Casciano Val di Pesa, in località Scopeti. Lotti dice che era domenica, ma lo studio delle larve, effettuato con tecniche che allora non erano a disposizione della scienza, porta indietro le lancette almeno al venerdì sera. Facendo venir meno tutta l’architrave del racconto.
Poi ci sono alcune testimonianze, che rivalutate possono costituire nuove prove. Una è quella del barista che disse di aver visto viva la vittima domenica mattina, ma per averla riconosciuta da una foto pubblicata due giorni dopo sulla Nazione: in quella foto Nadine Mauriot aveva quindici anni in meno e un taglio diverso. È possibile che il barista si sia sbagliato? Altre due testimoni, inoltre, collocano Lotti in un luogo diverso dal secondo doppio omicidio, smentendo nuovamente la versione acquisita in dibattimento. Infine, c’è un ultimo elemento, non contenuto nella richiesta di revisione, ma che è un macigno se lo si inserisce nel contesto: nel 2019 la Procura di Firenze ha stabilito che la pallottola trovata nell’orto di Pacciani era stata artefatta. E in ogni caso non era compatibile con l’arma del delitto. Un errore, nel migliore dei casi, un falso nel peggiore. “Ho conosciuto mio zio come un uomo pacifico – dice il nipote Paolo Vanni – lo chiamavano in quel modo perché era ignorante, incapace di delitti efferati”.
Biscotti e Mazzeo hanno una loro tesi: sono convinti che l’assassino vada ricercato in quel profilo indicato dal Fbi, solitario, freddo, calcolatore e di intelligenza sopra la norma. Ma, sebbene la strada della revisione sia ardua, si potrebbero accontentare di mettere in dubbio la sentenza Vanni. Un tentativo che potrebbe avere effetto sulla Procura di Firenze, che da qualche tempo ha ricominciato a indagare: segno che i pm sono convinti che ci sia ancora da scavare per trovare la verità.