La Stampa, 14 gennaio 2025
Intervista a Filippo Timi
«I 50 i nuovi 40? La metà di 100, piuttosto: un inizio quindi. La primavera del mio autunno». Ride iroco e sornione, Filippo Timi. Questa boa l’ha girata da poco in tour con il suo Amleto², da ieri è tornato su Sky e Now nei panni del Viviani, barista investigatore ideato da Marco Malvaldi per i Delitti del BarLume
Timi, che rapporto ha col Barlume?
«Esilarante, godurioso, una boccata di aria fresca, da 12 anni il miglior modo che ho di passare l’estate al mare senza essere obbligato ad andare in spiaggia a prendere il sole. Tutti insieme siamo diventati una grande famiglia. Tanto che, se appena sento Roan Johnson (regista e produttore creativo, ndr), parte il Viviani: parlo in toscano e divento un po’ più burbero e un po’ sfigato».
Lo avevamo lasciato nella passata stagione tra le capre. Se ne libererà?
«Gli autori se le sono inventate per rendergli la vita impossibile: cosa poteva esserci di peggio dei vecchietti? Prova a liberarsene in ogni modo, ma ha contro i poteri forti della serie»
L’abbiamo vista anche nella serie Dostoevskij dei fratelli D’Innocenzo: come è stato entrare nel loro mondo così disperato?
«Innanzitutto ringrazio Sky che ha avuto questo coraggio. Non tutti avrebbero corso il rischio di proporre allo stesso attore due ruoli così diversi. Quando i fratelli me l’hanno proposto ho pensato: “Fate di me quello che volete”. Loro sono geniali: indicazioni te ne danno con il contagocce perché c’è tutto in sceneggiatura. Di Vitello mi hanno solo detto: “Immaginalo come un paesaggio arido, un deserto. Una pietra”. Lavorano sugli archetipi, in questo caso quello del padre: ma ingiudicabile e borderline, un demone santo».
Come si sente nei panni di un padre?
«Non sono padre. O meglio: oggi sono padre dei miei genitori (penso che accada a tutti dopo una certa età) e ho una genitorialità traslata verso le mie nipoti. È ora di sfatare il mito delMulino bianco: famiglia tradizionale, ma che significa?»
Significa che in questo momento è libero dall’amore (sposatosi nel 2016 con Sebastiano Mauri, si è separato e ora convive solo con la corgi Tarquinia)?
«Mi sveglio e subito cerco di ricordarmi queste parole: “Mai stato più giovane di così”. Mi godo l’adesso. La vita passa, i genitori invecchiano, gli zii muoiono... Tuttavia: ogni tramonto ha la sua primavera. Il cappotto s’è imbiancato ma anche alleggerito. Invece di fare tre salti mortali in scena, faccio un casqué»
Con il morbo di Stargardt che le limita la vista, come fa?
«Mi condiziona, certo, però ormai è istintivo: vedo senza vedere, mi baso su quello che percepisco. Metto in conto che per vedere il centro devo sfocare lo sguardo. C’è un ostacolo? Usiamolo. Non mi vivo come uno che non vede, sono abituato a non farlo pesare agli altri e neanche a me stesso».
Non l’ha mai scoraggiata?
«È un ostacolo con cui ho imparato a convivere fin da piccolo. In teatro è ottimo: non ho il trauma delle luci in faccia, ma il pubblico lo sento ancora di più. Ciò in cui defìcito da un verso, lo recupero da un altro. Non vedo i lineamenti, non vedo la tv, per imparare la parte o leggere un libro, qualcuno me li deve leggere. È un bel modo per allargare il giro delle amicizie. Qualunque altro lavoro avrebbe richiesto di più».
Nessun dubbio sulla sua vocazione?
«Questo lavoro è amore. Non l’ho scelto, ma è stata una chiamata. All’inizio ero il solo a crederci. Poi, senza nulla togliere a Barberio Corsetti, che è stato la mia scuola, è arrivata André Ruth Shammah: mi ha dato subito carta bianca e un camerino nel suo teatro»
Proprio Shammah le ha chiesto di riprendere in teatro Amleto². Un caso? I 50 sono età che si presta a bilanci...
«Una metafora piuttosto: io come una specie di pirata che ha trovato in una cantina del tesoro un cofano d’oro. Ma era solo uno specchietto per le allodole, occorreva continuare a scavare per trovare una grotta di diamanti. Ecco perché Amleto al quadrato: dentro c’è tutto, la mia infanzia e adolescenza, puffi, big babol, Lorella Cuccarini, Lucio Battisti.... E poi Amleto è personaggio di modernità assoluta: come sosteneva Stanislavskij, è il primo a rendersi conto di essere un ruolo, una specie di Truman Show che poco per volta prende coscienza che la sua vita è una replica teatrale e le sue parole battute di un testo: uccidere, morire, sognare, perdere il suo amore. “Essere o non essere?”. La domanda è sempre quella»
L’altra è: Amleto ama Ofelia?
«Diciamo che Amleto sfugge l’amore ingabbiato dello schema corrente che dell’amore è solo rappresentazione. Tutti ci cadiamo in quel modello, perché ingenuamente temiamo di perderlo. Ma se lo idealizzi, lo rendi impermeabile alla vita, non rischi ma neanche lo scegli. E l’amore invece deve essere scelto ogni giorno»
Sta parlando (anche) di sé?
«Di me, di tutti. Bisogna starci attenti. Il rischio è finire con il considerare l’amore il centro di tutto, e invece no: non salva. Illumina di bello, aiuta, sostiene, ma spesso complica. Se lo pensi come salvifico, rischi di buttarti addosso all’altra persona: “adesso devi esaudire tutte le mie necessità”. Ma chi ce la fa? Perciò, dico no all’amore totalizzante. L’uomo è complesso. Anche se mamma ci ha insegnato quella cosa lì: è il percorso che abbiamo iniziato tutti, ma rispetto a cui dobbiamo evolvere. Perché non sia una condizione “galerica” (neologismo inventato al momento, da galera, prigione, ndr)».
Un desiderio che vorrebbe esaudire per questi suoi 50?
«Scrivere e dirigere un film: potrebbe diventare il mio fuoco eterno? Il regista di un film può tutto, è un po’ Dio. È bello sentirsi Dio». —