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 2025  gennaio 14 Martedì calendario

Intervista a Beatrice Merz

Visionario, neoromantico, vecchio leone dell’Arte povera: di Mario Merz, nato cent’anni fa e celebrato con un simposio che raduna a Torino oggi e domani artisti, amici, critici e storici dell’arte, hanno parlato e scritto in tanti, tantissimi. «E adesso io cosa dico?» sorride, timida come lui, la figlia Beatrice.
Chi era Merz e chi era Mario?
«Non slegherei le due figure, in fondo era un papà artista e un artista papà. Non c’è mai stata distinzione».
Allora uniamoli: chi era Mario Merz per lei?
«Un uomo dolce. Accogliente, generoso, mai impositivo. Un uomo del dialogo leale».
Mai sfociato in scontro?
«Si litigava come tutti, ma è stato un padre che mi ha sempre accompagnata, tenendomi per mano».
Molti ricordano le sue sfuriate. Cosa lo faceva arrabbiare?
«L’abuso di potere, a tutti i livelli. E poi era di una timidezza estrema, che in qualche modo tendeva a nascondere attraverso quell’atteggiamento burbero che ricordano in tanti».
E il rapporto con sua madre Marisa, anche lei artista?
«Si amavano e stimavano. C’era scambio, complicità, si aiutavano e contrastavano ma sempre per crescere insieme».
C’era competizione?
«Sì, ma sana e naturale, una gara a chi aveva più idee».
Com’è stata l’infanzia a Torino, nella casa vicino al Po?
«Ricca, divertente, aperta: amici, artisti, critici, curatori entravano quando volevano. C’era un via vai continuo. Anche per i miei compagni di scuola era un luogo magico. La casa era immersa nell’arte».
Si narra che lei giocasse con un’opera d’arte, L’altalena per Bea: è vero?
«Certo, era un lavoro realizzato per me da mia madre, in legno e ferro, tuttora esposta».
Suo padre frequentò la facoltà di Medicina per qualche anno, ha influito sulla sua arte?
«Era appassionato soprattutto di biologia e il suo lavoro sulla natura e la matematica deriva in parte da quegli studi. In realtà Medicina fu il frutto di un compromesso con suo padre che era ingegnere e voleva che il figlio seguisse le sue orme, ma lui voleva fare l’artista fin da ragazzo».
Diceva: «L’arte deve diventare un messaggio nuovo». Oggi qual è il messaggio?
«Dovrebbe esserci, un messaggio. Ma ciò che accade nel mondo ci sta mettendo alla prova, politicamente e socialmente. Gli artisti possono, attraverso le loro opere, ribadire e affermare i valori in cui credono».
Quali?
«Quelli che stavano a cuore a mio padre: il rispetto e la dignità. Per lui l’arte era anche politica».
Per cosa si batterebbe oggi? La pace, il clima, il lavoro...
«La grande emergenza sono le guerre, ma tutto è collegato, diseguaglianze sociali in primis. Ecco, lui contrasterebbe la bramosia di potere e di potenza».
Avete aperto il centro d’arte contemporanea, oggi anche sede della Fondazione Merz, nell’ex centrale termica Lancia in un quartiere operaio e periferico di Torino. Perché?
«Abbiamo scelto Torino e il suo aspetto più caratterizzante: quell’edificio era un luogo industriale non di élite, al confine tra città e terra di nessuno. Tutelato dalla sovrintendenza, ma distrutto e non abbattibile. Di grande fascino e con un valore simbolico».
Gli igloo sono tra le installazioni più rappresentative di Merz, con i tubi al neon e la serie numerica di Fibonacci: qual è l’igloo più iconico?
«L’igloo di vetri rotti, così inserito nel contesto industriale, è una casa di vetro, ma di vetri rotti. E poi l’igloo con la frase del generale vietnamita Vo? Nguye?n Gia?p: “Se il nemico si concentra perde tempo, se si disperde perde forza”. Negli anni ’60, con la guerra del Vietnam in corso, fu coraggioso lanciare un messaggio così forte e addirittura scriverlo su un’opera d’arte».
Credeva nella politica?
«Molto e fino alla fine. Dopo la Seconda guerra mondiale l’ha anche praticata (con Giustizia e libertà, ndr)».
La serie dei numeri di Fibonacci come è nata?
«Grazie all’amicizia con un amico matematico che gli spiegò la sequenza di numeri: papà ne rimase così affascinato che pensò subito come inserirla nella sua arte. Da quel momento, divenne un gioco: la cercava ovunque, anche con me. Prendeva una foglia e contava. La serie di Fibonacci è molto più ricorrente in natura di quanto pensiamo».
Cosa gli direbbe oggi se ne avesse la possibilità?
«Di non mollare mai e di continuare a fare l’artista. Questo momento storico potrebbe disilluderlo. Ma gli direi: “Resta il Mario degli anni ’60"».
E lui a lei?
«Al contrario, mi inviterebbe a prendere le vita con un po’ più di leggerezza. Come diceva Calvino, che amava molto, “non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore"».
Suo padre era un grande lettore...
«Leggeva di tutto, anche poesia. Mai mi ha obbligato a seguire le sue tracce, a disegnare o dipingere da piccola, ma mi ha trasmesso l’amore per i libri: questa è la sua eredità».
Al punto che lei ha fondato una casa editrice, la Hopefulmonster. Come reagì?
«Era felicissimo».
Omaggiando un’altra opera simbolo di suo padre (una scritta in neon dentro un recipiente di metallo), Beatrice “Che fare”?
«Fare. Semplicemente. Sempre e comunque». —