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 2025  gennaio 12 Domenica calendario

Intervista a Sergio Cauda

Con gennaio si chiude la stagione dei tartufi. O meglio finiscono quelli pregiati. Poi verrà altro. Sono non lontano da Asti, nel Roero che affianca le Langhe, ma è un terreno più aspro, come se il diavolo gli avesse inferto un colpo di artiglio, mi dice Luciano Bertello, storico locale, che proprio al Roero ha dedicato una dettagliata guida. Con noi ci sono Bruno Ceretto e Andrea Rossano, tanto uno è sapiente di vini quanto l’altro di tartufi che commercia e serve alle migliori “tre stelle” d’Europa.
Andrea dice che il mondo del trifolao (così lo chiamano in Piemonte) è impenetrabile. Geloso del proprio lavoro difficilmente si apre agli estranei. Una delle poche eccezioni è Sergio Cauda, 74 anni, con un passato di batterista in alcuni gruppi musicali. Lo aspettiamo in un tardo pomeriggio al “Garibaldi”, un attempato e straordinario ristorante di Cisterna d’Asti. Dopo un’ora di attesa ci chiediamo se mai verrà. Dopo due ore, comunque passate in amabili conversazioni, le speranze sono ridotte al minimo.
«Verrà», dice Luciano, «ha dato la sua parola». In effetti Sergio Cauda si presenta. Sorride, come uno che non abbia la nozione del tempo. È anarchico e abitudinario come il suo tartufo che da più di mezzosecolo “caccia” nelle zone del Roero. Ha dimenticato qualcosa nella macchina. Mi prega di seguirlo. Ci accostiamo a una vecchia Panda. Strati di fango, come bizzarre ere geologiche, la segnano di storie vissute. Sul retro i tre cani di Sergio con cui è andato a tartufi: «Sono il bene più prezioso», mi dice. Alla vicinanza del padrone si ridestano allegri ed eccitati.
Con essi ha girato quattro anni faThe Truffle Hunters, un film americano, presentato con successo al Sundance Film Festival. In fondo, quella di Sergio Cauda è una piccola storia visionaria sul più bizzarro e ricercato dei prodotti. Immagino il tartufo come l’inconscio della terra. Sergio lo vede semplicemente come il re dei boschi.
Dove sei nato?
«Non distante da Cisterna d’Asti. In mezzo alle colline del Roero. Qui si fa il vino come nelle Langhe. Ma per lungo tempo siamo stati considerati i cugini poveri.
Senza un vero futuro. O forse il futuro se lo erano preso quelli di Alba. Anche i tartufi se devi definirli territorialmente dici “il tartufo d’Alba”».
Ci sarà un motivo o no?
«Beh, ad Alba c’era un personaggio leggendario: Giacomo Morra. Lui creò dal nulla nel 1933 la “fiera del tartufo”. Fu un’idea geniale».
Lo hai conosciuto?
«No, ero ancora piccolo quando morì. Mi pare nel 1963. Lo stesso anno in cui scomparve BeppeFenoglio. Ricordo una polemica in difesa di un bosco, proprio fuori Alba, che il proprietario voleva tagliare per far posto a un noccioleto. Su quella collina – dove c’era una importante tartufaia – alla fine del ‘44 fu organizzata dai partigiani l’ultima difesa di Alba, al termine dei 23 giorni».
Che erano poi quelli raccontati da Fenoglio.
«Non ho letto il libro. Ne ho sentito parlare. Leggo pochissimo. Arrivo stanco a casa. Tutto qui. Non so neppure come finì la storia di quel bosco di acacie, roveri e pioppi. Ma senza alberi non ci sono tartufi.
L’estensione dei noccioleti, delle vigne, dell’edilizia sta distruggendo la biodiversità di certi luoghi che nelle Langhe, nel Roero, nel Monferrato sono il bene più prezioso. Andrea Rossano che di tartufi se ne intende e li commercia in tutto il mondo, dice che le Rocche sono la nostra piccola Amazzonia».
Intendi dire che la presenza del tartufo misura lo stato di salute di un territorio?
«Assolutamente. Dove c’è puoi star certo che il terreno non è stato sfruttato. Il tartufo nasce dove non esiste traccia di inquinamento. È complesso ma anche affascinante descrivere la vita che si svolge intorno a una tartufaia: i rovi, i cespugli di bacche, le piante che producono frutti, gli animali che l’attraversano – lepri, ricci, volpi, cinghiali, uccelli diurni e notturni, insetti e lombrichi -, e poi la terra che alle Rocche ha un’origine sabbiosa, e infine gli alberi le cui umide radici, attraverso le spore, sono la connessione tra ciò che accade sopra e sotto di essa.
Distruggere questo ciclo biologico – cui può contribuire oltre all’uomo anche il clima – significa mettere in pericolo l’esistenza del tartufo».
Se ne trovano sempre meno.
«La produzione nel tempo si è fortemente dimezzata.
Se prima era raro ora rischia di essere introvabile».
La rarità contribuisce in modo determinante ad aumentarne il valore.
«C’è il valore monetario che lo rende molto ambito. Ma poi c’è il valore emotivo».
Qual è per te più importante?
«Il denaro certo conta. Quello del trifolao è un mestiere duro e i soldi che puoi guadagnare ti ricompensano solo in parte delle fatiche che sopporti.
Ma poi c’è l’emozione della “cerca” – non la caccia come di solito si usa dire – la scoperta dei posti, il rapporto con i cani, sapere che sei parte di quel ciclo biologico che è natura e vita autentica».
Non siete in tanti a dedicarvi alla cerca del tartufo.
Quando hai iniziato?
«Da bambino, un po’ per scherzo. Vedevo anziani che con il bastone si dirigevano nei luoghi segreti. Non avevano il cane. Ma il bastone serviva per battere il terreno e percepirne il suono. A volte funzionava.
Dissi a un mio compagno di quinta elementare: proviamo anche noi, tu fai il cane. Giocavamo, ma neanche tanto. Tornavamo a casa con degli strani tuberi e il mio amico con il muso sporco di terra. Poi, a 15 anni, mi regalarono un Breton. Era un cane che per cinque anni non trovò neppure l’ombra di un tartufo. Pensavo non fosse adatto. Ma poi, come per miracolo, si imbatté nel primo tartufo e da quel momento non ha più smesso».
Quanto lo hai tenuto?
«Siamo stati insieme per 18 anni. Negli ultimi tempi finì con le zampe anteriori in una tagliola. Dovettero amputargliene una. Ma gli ero così affezionato che continuavo a portarlo con me. Lo tenevo in braccio e quando sentiva l’odore del tartufo si agitava tutto».
Ora vedo che hai tre cani. Come li addestri?
«La prima cosa è il rispetto. Un cane va rispettato come una persona. Lui ti dà se tu gli dai.
L’addestramento può richiedere tempi lunghi. Si accorciano se il cane è figlio di un padre già addestrato. E poi devi fargli conoscere i luoghi, gli alberi, l’habitat dintorno. Va addestrato quando sale la nebbia e quando il terreno è meno umido. Fargli conoscere la differenza tra la collina e la pianura. E abituarlo infine all’odore del tubero».
Ci vuole pazienza. Ci sono cani leggendari. Ne hai avuti o conosciuti?
«Ho avuto cani straordinari. Ma il più bravo è quello che non ti aspetti».
Ti sei imbattuto in uno di essi?
«Ho una piccola storia che parte da una constatazione: il cane invecchia come il padrone. Perde progressivamente la vista; la forza delle zampe si fa incerta; l’udito si affievolisce. Alla fine non gli restano che i ricordi olfattivi».
Tutto molto malinconico.
«Lo so, ma ora ti racconto come trovai un enorme tartufo a quasi tre metri di profondità. Eravamo tre e ciascuno in tempi diversi aveva individuato quel luogo, sul quale avevamo scavato senza sapere l’uno dell’altro. Alla fine ci trovammo tutti insieme attorno a una buca mimetizzata».
Mimetizzata perché?
«Per il semplice motivo che iltrifolao che individua un posto fa di tutto per conservarlo segreto. Alla fine ci mettemmo d’accordo per scavare a turno. I canisentivano qualcosa ma non abbastanza da indicare la direzione. E più scavavamo e più i cani nella fossa erano terrorizzati. Uno dei tre andò alla sua macchina e a fatica fece scendere un vecchio lagotto sordo e cieco. Il padrone davanti alle nostre risate lo calò nel buco con una corda».
Cosa accadde?
«Cominciò a girare lentamente su se stesso come volesse mordersi la coda. Poi smise di agitarsi. Il muso puntato tra una zolla e una pietra. “Morirà lì dentro”, pensammo. Ma ci smentì tutti. La zampa incerta cominciò a scavare. Prima la destra poi la sinistra. Fu il quarto d’ora più incredibile che abbia vissuto. A un tratto, dalla profondità, spuntò un bitorzolo, insomma un tubero, di proporzioni ragguardevoli. Scoppiammo a ridere e a piangere. Il vecchio animale aveva trovato il suo e il nostro tesoro. Quello fu un cane leggendario».
Oltre ad essere un cercatore di tartufi sei anche musicista.
«È una passione che devo un po’ a mio padre.
Suonava il bombardino nella banda musicale di Asti.
Dopo un’esibizione tornava a casa con un sacchetto di riso o di zucchero. Sessant’anni fa lo pagavano così. A me piaceva la batteria. Ho cominciato a suonarla a 15 anni. Non ero sicuro di voler continuare. Un giorno Paolo Lancellotti, batterista dei Nomadi, mi disse che gli piaceva il mio tocco e il senso del ritmo. Miconvinsi a continuare. Ho fatto parte di alcuni complessi. Il primo gruppo di chiamava “Relazione d’Autore”, poi “Banda larga” e “Neve nera.” Ho lavorato con Vittorio De Scalzi dei New Trolls. Con lui a Genova incidemmo la base diQuella carezza della sera.Ho lavorato cinque anni con lui. Facevamo i dischi per la Mannoia, Vanoni, Nek, abbiamo preparato anche qualche ritmica per Vasco. Lui poi decideva se utilizzarle. Ho suonato un po’ dappertutto: nella balere, sulle piazze, durante le crociere. Quando mi sono sposato ho mollato le navi su cui suonavo e ho aperto un’attività di fiorista. Per poi lasciarla a mia moglie. Troppo forte il richiamo del tartufo».
Che cos’ha di così speciale?
«Alla fine penso che il sotto della terra è il solo posto che non ha confini. Tutto nasce e muore lì. Scavare è il gesto più potente che conosca».
Perché?
«Perché puoi al tempo stesso nascondere un segreto o portarlo alla luce. Siamo minatori del sogno».
Sembra la filosofia del tartufo.
«La leggenda vuole che sia stato Giove che scagliando una saetta abbia squarciato la terra e fatto nascere il tartufo. A me fa pensare allo scuro della pupilla che qualcuno dice si alimenta del buio dell’universo».
Hai preso parte a un film sull’epopea del tartufo.
Che esperienza è stata?
«Sono stati girati diversi documentari sul tartufo e sui grandi trifolai. Il film al quale ti riferisci èThe Truffle Hunters. Lo hanno girato due americani. Erano affascinati dall’idea che il tartufo non esisterebbe senza una cultura segreta che si tramanda di generazione in generazione. Ma anche preoccupati per tutto quello che ne minaccia l’esistenza. Un paio di anni dopo Steve McCurry, fotografo americano, ha realizzato una mostra dal titolo Truffle Hunters and their Dogs. Se vai al Museo del tartufo di Alba credo sia ancora visitabile».
Ciò che finisce in un museo parla soprattutto al passato. Che futuro vedi?
«Non sono un uomo di pensieri e di previsioni. Ma solo qui nel Roero, in mezzo alle Rocche, ho scoperto davvero chi sono».
Chi sei, o meglio chi siete voi cercatori rimasti in pochi?
«Siamo bugiardi patentati; romantici e conservatori, difendiamo la terra; a volte sospettosi che qualcuno di noi scopra i nostri luoghi segreti. Siamo uomini con pregi e difetti. La terra e i cani ci rendono migliori.
Non mi congedo mai dai miei animali. Fanno parte di me. Come il freddo nelle ossa e la gioia della scoperta. Ho imparato da essi quello che nessuno insegna: la fedeltà alla vita».