Robinson, 12 gennaio 2025
Alcol e fede Confessioni di un Nobel
«Le forze che si agitano dentro di lui sono potenti»: così Eskil Skjeldal annota nelle conversazioni avute con Jon Fosse, premio Nobel per la letteratura 2023. Il mistero della fede( Baldini + Castoldi, 2024), che le raccoglie, vive di queste forze magmatiche che si incontrano e scontrano. Fosse è uomo di genio e metodo. In queste sue «confessioni» riconosciamo la sua vasta conoscenza teologica, estetica e filosofica, ma anche l’immediatezza della sua percezione diretta del mistero di Dio. Se Fosse ne parla, allo stesso tempo sembra volerlo trattenere in sé, cancellare ciò che ha detto: «La certezza che il mistero è avvolto nel silenzio a volte è più forte del bisogno di comunicarlo», commenta Skjeldal.
Fosse nasce protestante luterano, nel seno della Chiesa nazionale di Norvegia, che lascia da ragazzo sedicenne. Attraversa due esperienze che sono come flussi carsici dentro di sé e dentro la sua opera: l’alcolismo e il contatto con i quaccheri. E qualcuno dirà: e che c’entrano l’una con l’altra? L’alcol è una dipendenza. L’esperienza quacchera è una forma di cristianesimo improntata a un misticismo, liberato da ogni sovrastruttura liturgica o teologica, avverso al vizio (in particolare l’alcol) e alle convenzioni mondane e sociali, geloso di una preghiera silenziosa. Ed ecco già vediamo in campo le forze che si contrastano come le onde di un gorgo. Alla fine sono loro che spingono verso il cattolicesimo una natura come la sua votata allo «sballo». Ammette: «Si può dire che mi sballavo con lo scrivere e dopo un po’, più o meno dai trent’anni, sì, anche prima, mi sballavo anche con l’alcol».
Se da una parte c’è lo sballo, dall’altra c’è invece la grazia, dunque. Per Fosse «scrivere è ascoltare» ( quando sa che di norma, invece, «il narratore è uno che parla» ). La letteratura ha a che fare con la grazia: per lui quel che accade durante il processo di scrittura è incomprensibile. Un’opera poetica arriva come un dono che, una volta ricevuto, richiede di lavorare sodo. «Non serve a niente starsene lì seduti sperando che qualcosa piova di colpo sulla carta. Va fatto emergere rimanendo in ascolto. A volte tirandolo fuori a fatica», fino ad avere «l’impressione di dovermi strappare le parole dalla carne».
Non c’è teoresi e ragionamento in Fosse che non si confronti con l’istinto, con la sua umanità calda, che si traduce in immaginazione e intuito. E allora ecco un altro scontro di forze: quella dell’eloquente profeta, che sente il bisogno di trasmettere ciò che ha visto, e quella del mistico taciturno riluttante a parlare del mistero. Tra il profeta e il mistico allora al centro sorge il poeta che tiene insieme le «opposizioni polari», come le definirebbe Romano Guardini. «Il cristianesimo – scrive Fosse – è sotto moltiaspetti la religione del paradosso. Quindi anche la religione della poesia e del mistero». Ed ecco perché queste conversazioni sulla fede sono schiettamente letterarie.
La potenza della letteratura è capace di rivelare «qualcosa che non può essere detto, né mostrato, in nessun altro modo se non attraverso il modo in cui è scritta». Ecco il nucleo caldo del magma liquido di Fosse: uno scontro di forze che trova non una conciliazione né una sintesi, ma un campo elettrico. E questo campo è rappresentato da poesia e fede cattolica insieme. Con un cambiamento dopo la sua conversione: se prima con Kafka poteva dire che la sua scrittura erauna specie di preghiera, in particolare i suoi libri più cupi, ora invece ha separato la preghiera dallo scrivere, che è diventato «più una riflessione, un lento brancolare». Le parole della preghiera prendono un’altra traiettoria: si svuotano del loro significato comune per «essere riempite di una specie di vuoto pieno». Sono parole conchiglia che non spetta allo scrittore riempire di senso. È l’esperienza della liturgia e delle formule che, ripetute, si svuotano di letteralità e si riempiono di simbolo.
C’è un passaggio rivelatore di queste splendide conversazioni: «Via via, con il passare del tempo, – dice Fosse – ho trovato più verità, vita sincera e calore umano tra i miei compagni di bevute che negli ambienti cristiani. Erano loro a essere molto più vicini alla verità, sì, in un certo senso più vicini a ciò che è cristiano». Si riferisce ai contesti luterani prima della conversione cattolica, certo. Ma resta vero sempre per lui: verità è «vita sincera e calore umano». Fosse è l’anti- puritano. Il suo Gesù è «un ribelle, implacabile contro ogni genere di formalismo e orpello. Quelli che scelse come apostoli non erano certo i più virtuosi figli di Dio, ma esattori e peccatori». Già Wilde nel cattolicesimo aveva riconosciuto una Chiesa fatta di «santi e peccatori» quando nel protestantesimo inglese dei suoi tempi riconosceva «tante brave persone». E con le brave persone non si fa letteratura. Anche Flannery O’Connor era dello stesso avviso. È proprio la tensione tra santità e peccato, tra profezia e misticismo, tra alcol e pace interiore che impedisce a Fosse di non scomparire, svanire, nel mondo, nella quotidianità, nel rapporto moderato e mediocre con le cose. «La moderazione non è mai stata il mio forte, a prescindere da cosa – ammette – Fumare, bere, scrivere, leggere. Non sono una persona moderata». Fa suo l’invito di Baudelaire: «Ubriacatevi, di vino, di poesia o di virtù, a piacer vostro. Ma ubriacatevi!».
Scrivere allora non è per lui frutto del desiderio di esprimere sé stesso, ma del desiderio di salvarsi nei marosi agitati da forze potenti. La scrittura prende il posto dell’angoscia, dell’inquietudine, della malinconia, dà voce al desiderio di avvicinarsi «all’autentica essenza della realtà», che è come un bagliore. Ma senza prendere il volo nell’empireo, perché per Fosse l’unico modo perché l’arte sia davvero bella è quello di contenere sempre «qualcosa di difettoso, qualcosa di brutto, sì, qualcosa di doloroso».