La Stampa, 13 gennaio 2025
Intervista a Ghemon
«Il festival di Sanremo? Magari ci torno alla soglia degli ottant’anni come Massimo Ranieri o Gianni Morandi, ma per i prossimi cinque anni non lo vedo come un approdo per la mia musica. Ora il mio percorso è quello di uno stand up comedian all’americana con uso di canzoni e poi, sarei pronto a sottoscriverlo, sono certo che la stand up comedy farà per la comicità italiana quello che il rap ha fatto per il pop». Ghemon, registrato all’anagrafe come Gianluca Picariello, è uno degli artisti più interessanti del nostro pop eppure, dopo la partecipazione al Sanremo 2021 con la notevole Momento perfetto arrivata (però) solo sedicesima, stava per appendere il microfono al chiodo.
Fortunatamente, riflessioni, ripensamenti e una smisurata voglia di mettersi alla prova hanno spinto l’artista a ridisegnare il quadro della sua vita. Da due anni Ghemon gira per i teatri d’Italia in maniera quasi anonima, con uno spettacolo che va raccontato. Si intitola Una cosetta così e in questi giorni viene pubblicata l’intera registrazione sia su tutte le piattaforme digitali che in vinile. Lo show è pura stand-up comedy rafforzata da iniezioni di canzoni inedite inserite qua e là. Ghemon così unisce la tradizione dei comedy album americani alla forza del nostro teatro canzone richiamando gli insegnamenti di Gaber e Jannacci.
Hip hop, neo-soul e jazz contemporaneo sono la colonna sonora di un hit show da 74 repliche. «A teatro – spiega – metto in scena le follie che comporta un lavoro come il mio insieme alle piccole grandi disavventure della vita, dalle gioie alle sfide di tutti i giorni, la passione per lo sport, le relazioni d’amore e quelle con la famiglia: in “Una cosetta così” ci ho messo tutto. Tra i brani inediti ci sono anche i singoli che hanno anticipato l’album, “Pov” e “Sindrome di Stoccolma”, “Patto col diavolo”, “Lungo il tunnel” e “La fine"».
Ora che il suo teatro/canzone si è dimostrato vincente ma ha terminato il suo percorso con la pubblicazione del disco, nei prossimi mesi Ghemon cercherà «di perfezionare questa formula e farla ancora più mia. Adesso viene il bello. Prima c’era il brivido perché non lo sapeva nessuno e mi sono veramente giocato la carriera (ci sono state delle serate con la sala piena di posti vuoti, ma sono andato avanti) ma oggi ho in pugno le cose che fanno ridere e quelle che no. Ci sarà un altro spettacolo dove sarò ancora più me stesso, con canzoni ancora più centrate anche se lascio la porta aperta per qualsiasi possibile invenzione. È una vita che studio da artista inedito».
Da un punto di vista espressivo e comportamentale si potrebbe definire Ghemon un anarchico dello show business. «Sì assolutamente sì. Lo sono. Anche se ci sono dei termini, anarchico è uno di questi, che potrebbero trasferire al lettore un alone di freddezza, mentre posso assicurare che vivo una vita felice. Diciamo che sono un anarchico vitale». L’anarchico Ghemon si trova bene in questa Italia? «Le cose che mi fanno soffrire sono le stesse che mi stimolano».
Ghemon segue con attenzione divertita i vari dissing Fedez/Tony Effe e l’effetto che hanno sortito sull’opinione pubblica. «Nel rap ci sono nato e cresciuto – spiega – so che la sfida fa parte del gioco e non vorrei che venisse meno. Il dissing fu inventato dai rapper americani per non arrivare a tirar fuori le pistole dai pantaloni. In quei casi si dicono cose pesantissime ma non è colpa del rap. I valori sbagliati li ha la società in cui viviamo e il rap fa da ripetitore. Il problema del patriarcato esiste a prescindere dal rap anche se soffre da sempre un problema di machismo. Mi faccia dire, senza il rap italiano molto “entertainment” nel nostro Paese sarebbe una noia. Bisogna prendere certe storie come se si stesse guardando Beautiful. Una soap con un po’di pepe».
Per quanto riguarda il Festival di Sanremo, «dal secondo Baglioni in poi – osserva Ghemon – il festival ha cambiato pelle ed era giusto che ci fosse un’apertura verso il mondo reale; Amadeus ha completato l’opera rendendolo anche competitivo. Quest’anno Carlo Conti è sulla stessa scia e non mi sembra manchi qualcosa. Il mio appunto va al numero dei cantanti. Trenta sono troppi come, nel calcio, una serie A con venti squadre. Il lavoro di qualcuno finirà ne dimenticatoio ed è un fatto. Darei più spazio a meno canzoni, ma memorabili». —