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 2025  gennaio 12 Domenica calendario

Intervista a Matteo Berrettini

 «Credo in Jannik. Come dal primo giorno». Mi fido di te. Matteo Berrettini è un gigante: di talento, serenità, sorrisi. Di amicizia. «Conosco da tanto tempo lui e la sua squadra. Sono sicuro si tratti di un errore»: lo aveva detto appena era saltata fuori questa storia. Poi su Melbourne piomba la notizia della resa dei conti: fra tre mesi, davanti al Tas di Losanna, Sinner rischia una squalifica da uno a due anni. E Matteo? Resta accanto all’amico, sempre più convinto della sua innocenza. Se potesse, oggi lo abbraccerebbe («Ma durante i tornei siamo tutti rivali e un po’ “nemici”»). Da tempo ha preso con sé Umberto Ferrara, il preparatore atletico che aveva dato al fisioterapista Naldi lo spray a base di Clostebol da cui Jannik è stato contaminato accidentalmente, durante i trattamenti. Un altro segnale di fiducia: niente nubi. «Dicono si poteva anche aspettare la fine degli Australian Open per comunicare la notizia del processo? Chissà. Avevano già preso la decisione». Ha una espressione che non tradisce incertezze. Buona, paziente. «Ora parliamo d’altro, per favore».
Ad esempio, di un Berrettini che promette sorprese come fuochi d’artificio: più movimento, gioco a rete.
«Col team ci siamo concentrati su tanti piccoli particolari che si potevano migliorare. Intanto, la risposta al servizio: una serie di accorgimenti tecnici per cercare di essere più reattivo. Un metodo che ho già applicato a Malaga in Davis, e si sono visti i risultati. Poi, è vero: il servizio».
La chiamano The Hammer, il martello: può fare ancora di più, in battuta?
«Renderla imprevedibile. Ma poi ci sono anche gli spostamenti in campo, il dritto e il rovescio in corsa, la dinamicità sul primo passo. E la ricerca della rete, una caratteristica che quest’anno cercherò di mettere ancora di più in evidenza. Per fare bene le cose, però, hai bisogno di giocare e trasformarle in automatismi».
Beh, ormai ci siamo. È nella parte alta del tabellone, col suo amico Sinner. Martedì primo turno con Cameron Norrie, cliente ostico. La buona notizia è che finalmente comincia dall’inizio.
«Sì, nel senso che qui a Melbourne arrivo pronto e carico. Non succedeva da un po’. Negli ultimi due anni è stata sempre una rincorsa, un cercare di ritornare.
Fermarsi, ripartire, fermarsi. Non è stato facile».
Quanti infortuni. La voglia di poter dire: sto bene, adesso basta patire. Invece.
«Questa volta ho potuto lavorare molto al mio obiettivo. Ma con un approccio diverso. Guardando in avanti, lontano. Senza più farmi prendere dall’ansia di dimostrare subito qualcosa, di fare punti, di risalire alla svelta la classifica».
Sono passati 3 anni e mezzo dal luglio 2021: il primo italiano in finale a Wimbledon. Sembra un secolo.
«Ecco perché la parola d’ordine è diventata: pazienza. Non facciamoci più prendere dall’ossessione della programmazione, dalla fretta».
Il calendario è sempre più intenso.
«Pure troppo. Una grande scelta di tornei, mi piacciono tutti: mettetevi nei panni di un giocatore che ha avuto tanti problemi e vorrebbe spaccare il mondo. Stop. Non facciamoci ingolosire dalle occasioni. Un passo alla volta.
Dovremo essere bravi a gestire ogni cosa: i programmi di carico e scarico, soprattutto. Imparando a rinunciare qualcosa. E, attenzione: la vita non è solo prendere a racchettate una pallina».
A fine mese capitan Volandri vi porta in gita. Al Quirinale.
«Ci vediamo il 29 gennaio. Il presidente Mattarella. Non vedo l’ora. Spero tocchi a me parlare.
Forse mi verrà da ridere per l’emozione. Mi preparerò il discorso? Non lo so. Potrei anche improvvisare, e vediamo cosa esce.
Ci vado felice: accanto a me ho la fortuna di avere compagne come Jasmine e Sara. Jannik, e gli altri.
Gente che sta scrivendo pagine importantissime dello sport italiano».
La Davis, che festa.
«Ho raggiunto uno dei punti più alti della mia carriera. Il successo di Malaga, la festa, gli abbracci, la coppa, la gioia e la consapevolezza di far parte di un gruppo pazzesco: roba che ti dà una spinta incredibile. Però ti toglie anche molto, può diventare un’arma a doppio taglio. Il calendario è già fitto, tutto si comprime ancora di più: sai che dovrai dedicare almeno tre o quattro settimane di ulteriore lavoro, intenso. Finisce che non molli nemmeno un secondo».
Cos’è, vuol rinunciare all’azzurro?
«Figuriamoci. Voglio dire che tutte queste sfide rappresentano un grande stress psicofisico. Hai bisogno di riposare: muscoli e testa. Rinunciare, quando è il caso.
Vincenzo Santopadre mi ha insegnato a essere allenatore di me stesso. A prendermi per mano, a guidarmi nei momenti difficili. Con pazienza, e fiducia. Come nella vita».