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 2025  gennaio 13 Lunedì calendario

A sessant’anni dalla morte di Churchill, una riflessione sul patto di Monaco che regalò i Sudeti a Hitler ma non evitò la guerra. Con un occhio all’Europa assediata di oggi


«Il governo doveva scegliere tra la guerra e la vergogna. Hanno scelto la vergogna. E avranno la guerra». Vuole la tradizione che il 30 settembre 1938 Winston Churchill si sia rivolto così all’allora primo ministro britannico Neville Chamberlain. Non è vero. Si tratta di una delle tante citazioni apocrife attribuite a uno statista (e futuro Nobel per la letteratura) che, come disse un giorno il presidente John Kennedy, aveva il dono di mobilitare la lingua inglese e mandarla in battaglia. Ma anche se non pronunciò mai quelle parole, avrebbe avuto più di qualche ragione per farlo. Chamberlain era tornato poche ore prima da Monaco annunciando di portare con sé «la pace per il nostro tempo», una pace onorevole e duratura. In effetti, c’era ben poco onore in quello che lui e il suo collega francese, Edouard Daladiér, avevano appena fatto: abbandonare la Cecoslovacchia nelle grinfie di Adolf Hitler.
Il dittatore tedesco aveva minacciato morte e distruzione sull’Europa se al Terzo Reich non fosse stato concesso di annettere i Sudeti, la regione di confine a maggioranza germanofona che faceva parte dello stato cecoslovacco dalla sua nascita, nel 1919. E Gran Bretagna e Francia, che della sovranità della piccola repubblica erano garanti, si erano piegate. Quello che nei nostri libri di storia è chiamato «il patto di Monaco» (ma che le fonti ceche definiscono «il tradimento di Monaco») fu il risultato più scellerato della politica dell’ appeasement, la “pacificazione” a ogni costo. Dopo alcune ore di colloqui tra inglesi, francesi, tedeschi e italiani, ai rappresentanti di Praga che attendevano in una saletta a parte venne comunicato che il loro Paese sarebbe stato mutilato di un terzo del proprio territorio, perdendo gran parte delle ricchezze naturali, delle industrie e delle fortificazioni che lo proteggevano. Potevano accettare l’accordo, o vedersela con i tedeschi da soli, come aggiunse seccamente l’inviato inglese Frank Ashton-Gwatkin.
La disperata volontà dei leader delle democrazie liberali di evitare una guerra aperta era per certi versi comprensibile. Appartenevano tutti alla “generazione della Somme”. Avevano conosciuto l’orrore della carneficina di massa del 1914-18 ed erano convinti che, se avessero accontentato le brame revisionistiche del nuovo padrone di Berlino, avrebbero evitato un gran male al prezzo, tutto sommato accettabile, del destino di un altro popolo. Storici come Richard Overy, uno dei massimi specialisti di Seconda guerra mondiale, hanno rivalutato recentemente la logica politica, se non morale, di questa posizione. Negli anni Trenta, la maggioranza dei cittadini di Londra e Parigi non aveva alcun desiderio di battersi in nome di un principio, fosse anche la libertà (almeno, quella altrui). A Chamberlain e ai suoi compagni di partito, sensibili agli umori del proprio elettorato, l’accordo di Monaco dovette sembrare inevitabile. Ma il punto è che il calcolo non fu solo cinico. Fu fallimentare.
La promessa di Hitler di accontentarsi di quell’ultima richiesta durò lo spazio di un mattino. E Churchill, che in quattro decenni di vita pubblica aveva visto più patti traditi di quanto amasse ricordare, l’aveva intuito subito. «Non pensate che sia finita. Questa è solo l’inizio dellaresa dei conti» dichiarò alla Camera dei Comuni. Sei mesi dopo Monaco, le truppe del Reich invadevano ciò che restava della Cecoslovacchia. Altri sei mesi, e l’aggressione alla Polonia scatenava il secondo conflitto mondiale. Inglesi e francesi non avevano voluto rischiare per Praga, ma alla fine si ritrovarono comunque a morire per Danzica, e in condizioni molto peggiori.
Oggi che dalla sua morte sono passati esattamente sessant’anni (il 24 gennaio), la figura di Winston Churchill sembra emergere come quella di un gigante tra i timidi capi delle ultime democrazie liberali nell’Europa sommersa dai totalitarismi. Un’immagine creata anche dalle pellicole che al cinema l’hanno dipinto come un politico burbero ma impavido, il leone liberale deciso a difendere la civiltà di fronte alla minaccia del nazionalsocialismo.
In realtà, Churchill non fu solo il mastino col sigaro in bocca, stravagante ma coraggioso, portato sugli schermi da Gary Oldman in Darkest Hour (2017). Fu anche un conservatore, figlio del secolo XIX in cui era nato. Sospettoso nei confronti dei diritti delle donne, tendenzialmente razzista, fedele all’Impero come missione storica, ossessionato dalla minaccia del comunismo internazionale. E capace di errori clamorosi. La spedizione suicida contro l’impero ottomano a Gallipoli nel 1915, che portò alla morte di migliaia di giovani soldati, e la sottovalutazione del fascismo italiano, di cui non aveva capito la natura totalitaria, furono fantasmi che lo perseguitarono per tutta la vita. Eppure, nei cupi anni Trenta quel vecchio cocciuto fu tra i pochi a cogliere la minaccia radicale che il nazismo rappresentava per tutto il Vecchiomondo. E a sostenere, senza paura di fischi e insulti, che per difendere la democrazia era necessario armarsi in fretta, mobilitarsi e prepararsi a combattere, non necessariamente solo per il proprio focolare. Perché una pace ingiusta, strappata con la paura e le minacce, non può durare. Al massimo, rinvia la resa dei conti con l’aggressore di turno.