la Repubblica, 13 gennaio 2025
Tra gli Inuit groenlandesi
Una signora con tratti indigeni Inuit vestita come se dovesse conquistare il Polo Nord sorride e dice due cose al nuovo arrivato, chiaramente uno straniero sperso all’aeroporto di Nuuk. La prima, che da quel momento dovrà camminare come un pinguino, lentamente e senza staccare troppo i piedi da terra per evitare di scivolare sul ghiaccio. La seconda, che nella città di 20 mila abitanti tutti parlano di una sola cosa: la recente visita a Nuuk del figlio del presidente eletto degli Stati Uniti, Donald Trump Junior. Cose del genere non accadono tutti i giorni in questo angolo del pianeta remoto, bellissimo e ghiacciato.
Martedì il figlio di Trump ha trascorso alcune ore in città: è atterrato con il Trump Air Force, si è fatto fotografare con i cittadini locali, ha distribuito berretti rossi Make America Great Again, ha visitato la statua del fondatore di Nuuk, il missionario norvegese Hans Egede, arrivato nel 1728, e ha mangiato in un ristorante del centro specializzato in carne alla griglia. Ha ripetuto che la visita era per turismo e non politica, ma quello stesso giorno suo padre ha ribadito che gli Usa devono prendere la Groenlandia, anche con la forza.
Il biologo groenlandese Abbasy Lyberth, 53 anni, ha sentito Trump al tg da casa dei genitori a Qaqortoq, dove si trovava per le vacanze. Per raggiungere questa cittadina del sud di 3.000 abitanti, a 450 chilometri da Nuuk, ha dovuto prendere due piccoli aerei. Ci sono voluti due giorni. In Groenlandia non ci sono strade e gli spostamenti spesso devono essere effettuati su piccoli voli o barche. «Da Nuuk è più costoso andare dove sono nato che a Copenhagen», dice. Abbasy è preoccupato: «Pensavo che sarebbe successo qualcosa, già nel 2019 Trump aveva detto di voler acquistare l’isola, ma ora ha più potere. Qualcosa sta cambiando. E fa paura». Il biologo, consulente governativo, è riservato, serio e parla lentamente. Riflette molto su quello che sta per dire. Tra una frase e l’altra intervalla lunghi periodi di silenzio. In questo è simile agli altri Inuit. Sembra essere un tratto caratteriale groenlandese: non parlare alla leggera, sapere che ciò che viene detto ha peso e conseguenze. Che nulla è gratis e che nel dubbio è meglio tenere le cose per sé.
In Groenlandia tutto è un po’ così: difficile da decifrare. Il paesaggio blu e ghiacciato è travolgente. L’isola è un’enorme roccia quasi interamente di ghiaccio grande quattro volte la Spagna, e su di essa vivono 57 mila persone. È un territorio autonomo del Regno di Danimarca, ma Nuuk è più vicina a Washington che a Copenhagen. Nelle giornate invernali la temperatura scende fino a 19 gradi sotto zero. Albeggia alle undici e mezza del mattino e fa buio alle quattro del pomeriggio.
Doris Jacobsen è una parlamentare groenlandese del partito socialdemocratico Siumut. È stata membro del Congresso danese e più volte ministro. Dopo aver riflettuto, risponde: «La Groenlandia non è in vendita, ma siamo aperti a collaborare con le nazioni che lo desiderano. Non vogliamo essere americani, ma non vogliamo nemmeno essere danesi». Detto altrimenti: le dichiarazioni di Trump, le sue minacce, hanno alimentato la questione dell’indipendenza.
Gli abitanti della Groenlandia si ritrovano oggetto del desiderio dell’uomo più potente del mondo e cercano il modo di trarne vantaggio senza bruciarsi. Un giornalista, che preferisce non rivelare il suo nome, spiega che l’improvviso interesse per il suo Paese, la presenza di media stranieri, è sorprendente e stressante. Come il biologo Abbasy, ha accolto le dichiarazioni di Trump con sorpresa e cautela. «Quando nel 2019 disse che voleva comprare l’isola era divertente, ma ora non sembra più uno scherzo». Il partito di Jacobsen governa la Groenlandia in coalizione con il vincitore delle elezioni del 2021, gli Inuit Ataqatigiit, anche loro socialdemocratici ma più ambientalisti. Entrambi sono per l’indipendenza. La differenza tra loro sta nella velocità. Siumut ritiene il processo debba essere accelerato. «Tra 10 anni», calcola Jacobsen. Gli Inuit Ataqatigiit preferiscono procedere più lentamente. Il biologo Abbasy, come il resto dei groenlandesi – e come la stessa Jacobsen – riconosce i rischi di questo passo. Oggi circa la metà del Pil dell’isola è sostenuto dagli oltre 600 milioni di euro versati ogni anno dalla Danimarca. È vero che l’economia locale cresce a un ritmo più veloce rispetto al resto d’Europa e la disoccupazione sfiora il 3%, ma il 35% dei posti di lavoro è legato al servizio pubblico.
L’altra grande fonte di reddito degli Inuit è la pesca, attività leggendaria, insieme alla caccia: gamberi, gamberetti e ippoglossi vengono spediti in grandi quantità negli Usa o in Cina, i principali acquirenti. Ma anche merluzzi e perfino le balene. Lo stesso marito di Jacobsen è, tra le altre cose, un cacciatore di balene: un dettaglio che descrive bene il Paese. L’assistenza sanitaria è gratuita e universale, anche se per molte cure bisogna recarsi a Copenhagen: quasi 5 ore di aereo. E anche questo descrive bene la realtà. L’istruzione è gratuita e negli ultimi anni Nuuk ha un’università, che insegna in groenlandese, lingua ufficiale imparentata con le altre lingue Inuit parlate in Alaska e in Canada.
L’indipendenza, quindi, può essere costosa. E per questo Abbasy, dopo lunga riflessione, si dice favorevole, ma purché non si perdano i diritti. «Cosa succederà al mio piano pensionistico gestito da una banca danese?». Motivo per cui un tassista afferma che il popolo groenlandese dovrebbe essere indipendente, ma non ora. Non è ancora pronto.
Javier Arnaut, professore dell’Università della Groenlandia, specializzato in economia e risorse naturali, aggiunge un elemento che può rivoluzionare economia e società locali: il sottosuolo dell’isola, facilmente sfruttabile per l’assenza di alberi, è ricco di gas e petrolio, rame e ferro, oro e rubini, ma anche delle ormai ricercatissime terre rare: il neodimio, ad esempio, necessario per i magneti delle auto elettriche e per gli impianti eolici. A sud dell’isola, nei pressi di Narsaq, cittadina di 3.000 persone, la maggior parte dedite alla pesca, si trova uno dei giacimenti di neodimio più grandi al mondo, capace di competere con quelli cinesi. Questa miniera da sola equivarrebbe al 25% degli aiuti danesi. Ma nel 2021 gli Inuit Ataqatigiit hanno vinto le elezioni proprio perché contrari al progetto di sfruttamento a causa dell’impatto ambientale. «Inoltre – spiega Arnaut – gli Inuit non hanno tradizione mineraria, i lavoratori dovrebbero essere assunti all’estero e non ci sono alloggi e con ogni probabilità si contaminerebbe la pesca».
È questo che vuole Trump? Miniere? O è solo un altro capitolo della politica imperialista che sembra voler abbracciare anche a Panama e in Canada? Jakob Kirkegaard, del Bruegel Institute, ritiene che l’interesse ultimo di Trump per la Groenlandia non sia chiaro: «Deriva principalmente dalla sua passione per le mappe. Ha visto che la Groenlandia è grande e che è a metà strada tra gli Stati Uniti e la Russia. Ma non penso sia molto razionale. Non gli interessa il fatto che la Danimarca sia un alleato degli Usa. E non capisce che se impone dazi alla Danimarca si troverà contro la Ue». Arnaut, dal canto suo, ricorda che lo scioglimento dei ghiacci causato dal cambiamento climatico ha aperto nuove rotte commerciali – e ne aprirà altre – attraverso l’Artico e che gli Usa cercano di accedervi dal loro lato. E aggiunge che la base statunitense nel Nord della Groenlandia ha un sistema di rilevamento missilistico. Una delle possibili aspirazioni di Trump potrebbe dunque essere di installare altre basi contro le minacce di Russia e Cina. «Per come va il mondo, tutto può succedere», aggiunge.
L’isola più grande del mondo, suo malgrado è dunque diventata cruciale dal punto di vista strategico e logistico. La remota roccia ghiacciata è improvvisamente al centro del mondo e i suoi 57 mila abitanti non riescono a farsene una ragione.
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