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 2025  gennaio 12 Domenica calendario

Intervista a Walter Veltroni


C’era un ragazzino che amava i Beatles e i Rolling Stones. Ma anche Gianni Morandi. Walter Veltroni negli Anni 60 era piccolo però ricorda tutto: «Avevo la sensazione di un’estate permanente, era come se ci fosse un vento che ti trascinava, come un Rinascimento che creava la condizione di poter sperimentare».
A Brescia il 21 gennaio prossimo Veltroni è interprete, autore e regista di «Le emozioni che abbiamo vissuto. Sottotitolo: «Gli anni Sessanta. Quando tutto sembrava possibile. La tournée di 25 date va da Milano a Roma.
C’entra la nostalgia?
«Il senso di questo spettacolo non è la nostalgia, un sentimento che è lecito e giusto coltivare ma non ha ragion d’essere quando si passa a una considerazione storica».
Che decennio è stato?
«C’era qualcosa di magico. L’Italia era uscita da poco dalle macerie della guerra. Dalla guerra civile all’Autostrada del Sole passa meno tempo che dai Mondiali di calcio del 2006 ad oggi. In 15 anni, l’Italia rifiorisce: l’avvento della tv che trasforma il modo di vivere e di pensare, le infrastrutture…Avviene quando era ancora tutto per terra, le stazioni, le strade, gli ospedali, e in un contesto internazionale di grande crescita: i Beatles, il Giovane Holden, Gabriel Garcia Marquez, il grande cinema, il teatro…E poi le minigonne, i capelli lunghi. Tante sollecitazioni. Se guardi una foto degli Anni 60 e la confronti con una degli Anni 40, è incredibile la trasformazione. È un decennio che si conclude con lo sbarco sulla luna, 24 anni dopo Hiroshima».
Il sogno al potere.
«Tutto sembrava possibile. E come tale, ora che tutto è cupo e pesante, in scena ricorderò la luce in una forma che gioca sulle emozioni. Questa è l’intenzione dello spettacolo. Ci saranno rimandi che riguardano mio padre e mio nonno, che fu portato a via Tasso dai nazifascisti. Cominciamo con le Olimpiadi di Roma e finiamo con le bombe di piazza Fontana. In mezzo Pasolini. Mi piaceva la sua irregolarità. Che non significa non avere idee, si tratta di seguire il filo di una propria invisibile coerenza, che spesso porta a non essere compresi. Era una persona complessa, curiosa di noi giovani comunisti, eclettici, non identificabili con una tradizione ideologica. Cosa direbbe oggi? Che aveva ragione a dire che sviluppo e progresso non vanno di pari passo».
E il ’68, con tutto quello che si porta dietro?
«Il vero ’68 sono gli Anni 60. La rivoluzione è nel costume, nelle mutate relazioni padri figli, nel rapporto tra sé stessi e la società».
Sarà un monologo?
«No, avrò accanto a me Gabriele Rossi, un pianista piemontese di 23 anni, grande talento che ho trovato su Internet, è capace di improvvisare, ha una sensibilità che mi fa pensare a Danilo Rea. Poi filmati, giornali, oggetti: il mangiadischi, il pupazzo del Musichiere, i telefoni in bachelite.È’ come se fossimo a casa mia, come se dal baule, un po’ come quello che aveva Gigi Proietti, tirassi fuori i ricordi di quel tempo. È un ciclo che dagli Anni 60 arriverà alle Torri Gemelle».
Verranno i giovani?
«C’è bisogno di confermare che sognare è possibile e non inutile. Noi da ragazzi non ascoltavamo Rabagliati: i ragazzi di oggi ascoltano Dylan. Faremo in modo che le persone tornino a casa con la più bella delle esperienze. Su una scheda voteranno quello che gli è piaciuto di più».
Si dice sempre che l’Italia è un paese senza memoria.
«Viviamo nella società dell’istante che recide la memoria con la speranza, due parole che lo spirito del tempo ha rimosso. Consumiamo il tempo in solitudine davanti a un cellulare che dispensa frammenti senza collegamenti avanti e indietro. È una società che ha deciso di combattere la memoria».
Uno spettacolo evocativo dal sapore proustiano?
«Le madeleine ci sono, negli oggetti, nelle parole, nelle persone. Parlerò a lungo di Alberto Sordi e di sport, ma sono anche anni di tante morti: Luigi Tenco, Che Guevara, il patriota cecoslovacco Jan Palach, i fratelli Kennedy, Papa Giovanni XXIII…Tanta morte e tanta speranza».
La sua storia personale è intrecciata alle vicende italiane. È stato doloroso lasciare la politica?
«A 53 anni ho lasciato gli incarichi, il potere, i ruoli: non la politica. E ho smesso di fare il segretario del Pd dopo aver fatto non solo politica. Ho sempre coltivato altre passioni. Mi è spiaciuto, però è stato giusto così. Se il potere è una malattia, io non l’ho avuta. Dopo, ho cercato di non essere un orfano, almeno in questo, perché lo sono stato nella vita».