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 2025  gennaio 12 Domenica calendario

Intervista a Lucia Di Luciano


Lucia, come sta?
«Come una che a quasi 92 anni non vede l’ora di alzarsi al mattino».
E da dove viene questa energia?
«Dal fare quello che mi piace fare».
Cioè, dipingere.
«Dipingo dal 1947, da quando avevo 14 anni. Non mi sono mai fermata e ancora oggi, ogni giorno, prendo i pennelli».
Questa storia comincia nel 1933, quando a Siracusa, in una famiglia di lontane origini aristocratiche (e decisamente agiata), nasce Lucia, destinata a una tranquilla vita borghese.
Ma poi scoppiò la guerra.
«E mio padre, per proteggermi, mi mandò a studiare in collegio a Firenze. Non sapeva, però, che qui avrei incrociato il mio destino».
Quale?
«Una monaca che mi insegnò a disegnare e a dipingere. Mi parlava di Giotto, di Botticelli. Capii che quello doveva essere il mio futuro».
E poi che cosa accadde?
«Papà capì che la guerra si stava spostando verso il Centro e il Nord Italia, sfidando i rischi dell’attraversare la Linea Gotica arrivò a Firenze e mi portò via. Tornammo in Sicilia, la guerra per fortuna finì e una sera, a cena, io me ne uscii con “Papà, voglio diventare un’artista”».
E suo padre?
«Senza fare una piega disse “no”, continuando a mangiare. Io allora presi la prima cosa a portata di mano, un pezzo di formaggio, e glielo scagliai addosso. Per fortuna che intervenne mia madre a fare da paciera. Oggi capisco mio padre: nella Sicilia dell’epoca, ogni ambizione artistica veniva percepita come pericolosa e non avevano tutti i torti. Le pittrici erano poche, quelle che addirittura uscivano dalla tradizione per sperimentare nuovi generi erano quasi inesistenti».
Giungeste a un compromesso?
«Sì, accettarono di mandarmi a frequentare la Regia Accademia di Belle Arti di Roma, ma alloggiando in un collegio che faceva rispettare regole molto rigide. A letto presto, studio e poche distrazioni».
Quello che non sapevano è che nell’Accademia c’era una famosa Libera Scuola di nudo.
«Fu lì che conobbi mio marito».
Nudo?
«No, al contrario. Lui era quello che faceva muovere le modelle che posavano per gli artisti, una sorta di direttore d’orchestra. Lo vidi che dava ordini in silenzio, non diceva mai una parola e allora mi avvicinai e gli dissi: “Perché non parli?”».
Come la leggenda michelangiolesca.
«Giovanni Pizzo mi guardò, mi sorrise e la mia vita prese una piega nuova. Fu la pittura a farci innamorare. Cominciammo a lavorare assieme, dipingevamo tutti i giorni e la sera si andava a piazza del Popolo. Mi manca (Giovanni è scomparso nel 2022, ndr)».
Gli anni Cinquanta. Pasolini era arrivato da poco, nel 1952 Alberto Moravia vinceva il Premio Strega, qualche anno dopo Elsa Morante pubblicherà «L’isola di Arturo».
«Capitava di incontrare poeti e scrittori. Per un periodo mi sono messa con Valentino Zeichen, ma poi Giovanni ebbe la meglio. A piazza del Popolo c’erano registi importanti, sceneggiatori, attori. Si parlava, ci si confrontava tutti i giorni. Andavamo anche dal Fiaschettaro, che era praticamente una cantina che stava a ridosso del Senato e lì si discuteva».
Erano anche gli anni in cui Giorgio De Chirico lavorava nel suo atelier di piazza di Spagna, Giacomo Balla stava vivendo i suoi ultimi anni, sarebbe morto nel 1958.
«E io mi sposavo».
Così presto?
«Vede, all’epoca una donna che voleva fare la pittrice aveva una sola strada: sposarsi. E poteva sposarsi solo con un pittore, perché nessun altro avrebbe acconsentito a farlo. Ci sposammo, eravamo felici e lo siamo sempre stati, anche in seguito, anche quando abbandonammo tutto per vivere da reclusi».
Ci arriviamo tra poco. La «svolta» nella vostra carriera quando arriva?
«Nel 1956, quando Palma Bucarelli, la mitica soprintendente della Galleria Nazionale d’Arte Moderna, organizzò una rivoluzionaria mostra su Mondrian. Oggi sembra scontato vedere quelle forme geometriche colorate, ma all’epoca non lo era e per noi fu uno choc. Sia io che Giovanni cominciammo a “togliere”: colori, figure. Arrivammo a una pittura anti emotiva, fondata sul calcolo automatico».
In quegli anni si diffondevano i primi calcolatori elettronici, antenati delle modernissime calcolatrici digitali.
«È così. Prendeva forma in noi quella che poi sarà chiamata Arte programmata e che oggi è al centro di una grande mostra alla Tate di Londra, Electric Dreams: Art and Technology Before the Internet».
E c’è anche un suo quadro.
«Sì, gran parte dei miei lavori sono fatti di geometrie, anche se negli anni ho ceduto al colore e a forme più morbide».
Palma Bucarelli vi ha aiutato?
«Ha comprato subito tutti i nostri primi lavori di arte programmatico-cinetica che sono ancora parte della collezione permanente del museo. Lavori molto impegnativi, sequenze pittoriche in bianco e nero montate su pannelli modulari in masonite, estese per dieci metri di lunghezza... era qualcosa di mai fatto prima all’epoca».
Mi racconta della telefonata di Umberto Eco?
«Nel 1963, insieme con Francesco Guerrieri e Lia Drei, fondammo il Gruppo 63, un collettivo d’arte che però ebbe vita breve. Ma Eco ci telefonò: stava formando l’omonimo gruppo critico-letterario e ci chiese: “Va bene per voi se lo chiamiamo Gruppo 63?”».
E dopo che cosa accadde?
«Capimmo che non potevamo vivere di sola arte, specie una volta nati i nostri due figli. Allora Giovanni si iscrisse ad Architettura a quarant’anni e si mise a insegnare storia dell’arte nelle scuole medie. Io aprii un negozio di accessori alla Balduina, a Roma. Era un negozio come non esistevano prima a Roma: andavo a Londra e Parigi e scrutavo le novità».
Progettava e realizzava lei sia i vestiti che gli accessori?
«Sì. Abiti fatti con tessuti sintetici, utilizzavo anche le tovaglie di plastica e i pizzi in acrilico delle tende. Gonne e cappotti nascevano così. Giovanni mi aiutava con gli accessori: borse e cinture in vinile borchiato, bauletti in acrilico colorato con manici di plastica. Siamo finiti anche sui giornali di costume. Insieme abbiamo fatto anche i costumi per il famoso Piper Club di Roma. Ho vestito anche Patty Pravo».
Ma dipingevate ancora.
«Certo, si lavorava di giorno e di notte si dipingeva. Giovanni si specializzò in architettura e cominciò a fare diverse case, progettava piscine per le ville della Costiera Amalfitana, tra i suoi clienti c’era anche Raffaella Carrà. Le sue piscine erano famose per le forme stravaganti, alcune erano costruite a forma di zeta, altre erano tutte a gradoni».
Poi arrivò il momento della scelta «eremitica».
«Quando dovetti chiudere il negozio, decidemmo di andare via da Roma. Ci stabilimmo a Formello, alle porte della città. Giovanni progetto e costruì interamente con le sue mani la nostra villa-bunker, stile brutalista. Fece tutto lui, dall’impianto elettrico alla piscina, naturalmente. Era l’inizio degli anni Novanta e abbiamo vissuto qui per trent’anni, totalmente isolati dal resto del mondo. Per poter continuare a dipingere abbiamo venduto mobili e oggetti di famiglia ai mercatini e impegnato gioielli al Monte dei pegni. Io avevo una collezione raffinata di porcellana degli anni Trenta, quella di bambole Lenci e di fine Ottocento, poi le terrecotte antiche e i reperti greco-ellenistici provenienti dalla mia Siracusa. Tutto, abbiamo venduto tutto pur di poter continuare a dipingere».
Certo, quando si sta lontani dalle gallerie, dai mercanti e dalla critica...
«Io e mio marito abbiamo avuto una sola ossessione, forse quella che ci ha uniti per sempre: la pittura. Anche la casa di Formello è nata sulle tracce di questa fissazione: Giovanni volle costruire due studi diversi e simmetrici, protetti dagli alberi. Ogni giorno ci chiudevamo ognuno nel rispettivo atelier e ci rivedevamo per mangiare. Moltiplicò anche la linea del telefono così potevamo parlare insieme da due stanze diverse quando ci chiamavano».
Ma vi chiamavano in pochi.
«E noi stessi ormai eravamo lontani dal circuito dell’arte. Pensi che quando il nostro attuale gallerista di Milano, Christian Akrivos, ci contattò per la prima volta, ormai molti anni fa, noi nemmeno rispondemmo. Fu nostro figlio Oscar che intercettò il messaggio e lo chiamò».
Lucia, oggi lei ha superato i 90. La Tate, con questa mostra, le ha reso omaggio e nel 2022 è stata invitata a partecipare alla Biennale d’arte di Venezia. Che cos’è per lei il successo?
«Sarò sincera. I riconoscimenti come quelli di Londra e Venezia mi fanno felice, ma io sono felice solo quando mi metto al cavalletto. Mi alzo abbastanza presto, faccio colazione, mi lavo, mi vesto e vado in studio. Dipingo ininterrottamente fino all’ora di pranzo, poi riprendo nel pomeriggio. Non si tratta solo di rappresentare forme o geometrie. La pittura per me è creare qualcosa».
Mi fa un esempio?
«Siccome a Formello avevamo dei cani, io ne avrei voluto uno anche qui, nell’appartamento romano dove vivo oggi. Ma non è possibile per molte ragioni. E allora sa che cosa ho fatto: ne ho dipinto uno. Piccolo, rosso, simpatico. Lo porto sempre con me e anche in casa me lo tengo vicino. Chi ama l’arte, non considera un quadro come qualcosa da ammirare, ma da vivere».
Il mattino sta per finire, Lucia è un poco stanca. Ma a un occhio attento non sfugge una cosa: non vede l’ora di riposare per tornare ai pennelli.