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 2025  gennaio 11 Sabato calendario

Pasolini tifosissimo del Bologna e simpatizzante romanista

Non sarebbe stato adatto a questo tempo eccessivo. Pier Paolo Pasolini, che eccessivo lo era davvero in un’epoca in cui per diventarlo occorreva pagare un prezzo molto alto, immaginiamo che non avrebbe retto l’urto di questa Italia dei social, dei giudizi implacabili, del proletariato connivente coi magnati, delle inclinazioni sessuali di ogni tipo divenute forma di spettacolo. Cinquant’anni dopo il suo omicidio dai contorni misteriosi, avvenuto il 2 novembre 1975 in un malinconico ritaglio di spiaggia all’Idroscalo di Ostia, già l’essere definito “intellettuale” avrebbe rappresentato un peccato imperdonabile, così come la sua letteratura teorica eppure viscerale, il suo cinema ideologico, le sue opinioni politiche così solitarie in tempi di complottismo di massa. E alla vigilia di una sfida fra Bologna e Roma che lo avrebbe attratto, anche la sua passione per il calcio sarebbe stata bersaglio di sberleffi, per via di quella trasversalità da bolognese di nascita, friulano di formazione e romano di adozione che lo portò ad amare il football tifando rossoblù e simpatizzando per il giallorosso.Le discrasie sentimentali di Pasolini le aveva raccontate il poeta Aldo Onorati in questo modo: «Quando veniva a trovarmi ai Castelli Romani, si finiva per parlare anche di calcio. Io tenevo alla Lazio, squadra che lui, tifosissimo del Bologna e simpatizzante romanista, non vedeva proprio di buon occhio». Pasolini il pallone lo aveva nel sangue da ala destra di tanta corsa e buona tecnica che da ragazzo aveva sognato da emergere («mi soprannominavano Stukas», racconterà), lasciando in eredità all’adulto la voglia di giocare a calcio in qualsiasi momento, anche in giacca e cravatta, in ogni spazio d’erba che le immense periferie romane d’un tempo erano in grado di offrire. Il pallone per lui era amore vero, «che viene subito dopo l’eros e la letteratura. Se non fossi ciò che sono, avrei voluto fare il calciatore». Il suo Bologna prediletto, infatti, lo raccontava così: «Il più potente della sua storia, quello di Biavati e Sansone, di Reguzzoni e Andreolo, di Marchesi, di Fedullo e Pagotto. Non ho mai visto niente di più bello degli scambi tra Biavati e Sansone». In seguito, peraltro, ebbe una venerazione per Bulgarelli, a cui propose anche di fare l’attore in un film.Approdato nella Capitale, anche all’Olimpico Pasolini trovò casa. Nel 1957 fu addirittura inviato per L’Unità a raccontare un derby che la Roma vinse 3-0. Andava in curva con Sergio Citti e suo fratello Franco, oltre che con Ninetto Davoli, appuntando su un bloc-notes quelle espressioni romanesche che lo incantavano e che sarebbero riapparse in romanzi come Ragazzi di vita o Una vita violenta. Nelle borgate che descriveva erano quasi tutti romanisti, tanto che il tifo biancoceleste era un insulto: «Ammazza che broccolo». Chi brillava, invece, diceva: «Nun lo vedi che so’ Pandorfini?», mentre in un racconto, a tratteggiare la giornata perfetta, scriveva: «Gli sguardi di ogni pischella erano per lui. Poi, la domenica alla partita di calcio. La Roma avrebbe vinto». Ma in Pasolini non troverete mai il tifo come dimensione identitaria. Sulla Lazio sconfitta nel derby, infatti, scriveva così: «Non si può non avere simpatia per i vinti: i vittoriosi me lo concederanno». La sua affinità con la Roma, infatti, scaturiva dal fatto di essere squadra del popolo. Niente retorica, niente legioni o impero romano. Per lui i romanisti più commoventi erano gli immigrati dalle campagne e dal Meridione: «Il loro amore per la Roma strappa le lacrime. L’amano disperatamente, e gridano poco: ingoiano dolori e macinano gioie in silenzio». È vero, Pasolini ci manca, ma forse è un bene che questo calcio volgare del Terzo Millennio gli sia stato risparmiato.