La Stampa, 11 gennaio 2025
I numeri dell’industria della moda
Un mondo sull’orlo di una crisi di nervi (e di guerra), la Cina che non risponde più ai richiami del lusso, la minaccia dazi di Trump, i consumatori che si ribellano a prezzi oltre le stelle. Una tempesta perfetta che ha scosso quello che per anni è stato il fashion paradise, con i profitti delle aziende a due zeri. A parlare delle sfide e delle criticità del settore, alla vigilia di Pitti e della Milano Fashion Week è Carlo Capasa, presidente della Camera nazionale della Moda e vicepresidente di Altagamma (fino al 2016 ad di Costume National, maison fondata con il fratello Ennio nel 1986).Presidente, il settore Moda nel 2023 faceva 101 miliardi, nel 2024 siamo «solo» a 96. Situazione preoccupante?«Sono ottimista, già a fine anno vedremo una ripresa che si consoliderà nel 2026, ma certo il settore merita maggiore attenzione. La moda rappresenta l’Italia e il governo deve essere con noi per far ripartire il sistema. Abbiano fatto richieste per 250 milioni al governo, alcune di queste spalmate su 3 anni. Richieste risibili rispetto ad altri settori che poco portano e molto chiedono. Noi chiediamo poco e portiamo molto. Un’industria che funziona è un investimento. Se riusciamo a guadagnare un miliardo di fatturato con queste misure significa ripagare tutti gli investimenti fatti dallo Stato».I dati ci dicono che cosmesi, gioielli e occhiali hanno performance positive (+12 %), mentre abbigliamento e accessori hanno il segno meno (-8%). Forse le aziende hanno esagerato con i prezzi?«L’aumento dei prezzi era atteso perché se aumenta l’energia poi le aziende devono scontare tale aumento sui prezzi. Così come anche l’ avere una catena incentrata sul made in Italy perché il costo del lavoro in Italia è molto alto. I brand devono fare sicuramente uno sforzo per migliorare l’entry price e consentire a una fascia di clienti di accedere ai prodotti».50 milioni i consumatori persi e una produzione in volume che oscilla tra il 20 e il 25% in meno rispetto a due anni fa. Colpa della Cina?«Inutile negare che la contrazione dei consumi della Cina sia un problema. Il 35% dei beni di lusso era acquistato dai cinesi. Le cause sono un minor potere di acquisto ma anche una politica culturale “sovranista” che spinge ai prodotti interni e demonizza il lusso».Oggi molte realtà produttive, come i laboratori del Valdarno, sono in cassa integrazione. Cosa chiedete al governo?«Noi avevamo chiesto cassa integrazione per tutto il 25/26 per le piccole imprese fino a 15 dipendenti per non perdere forza lavoro perché di contro non riusciamo a formare le persone che ci servono. Ma è stata prorogata solo a fine gennaio 25. Dovremmo fare un po’ squadra. La moda fa 100 miliardi e 25 vanno allo Stato, portiamo soldi oltre all’immagine internazionale e valori positivi. Siamo la seconda industria del paese».Uno dei problemi della moda è la difficoltà di tramandare il savoir faire, di attirare giovani nei laboratori.«Infatti un’altra proposta che avanziamo è ingaggiare chi va in pensione per insegnare a chi ha meno di 30 anni, senza gravare sul cumulo della pensione, per trasmettere i saperi».Mercati su cui puntare?«Malesia, Indonesia, il Giappone. Ma anche middle east dove si sta allargando la fascia di cosumatori. Anche il Messico sta crescendo e il Brasile ha molte potenzialità se riusciamo ad abbassare i prezzi. E dobbiamo sperare che i dazi sui beni di lusso siano solo una minaccia. Avere dei dazi in America per noi sarebbe disastroso».Sta per partire la settimana della Moda maschile, Pitti e poi Milano. Cosa si aspetta?«Nelle settimane della moda si crea quella energia creativa che è il motore di tutto il sistema. 72 milioni di persone si registrano sulla piattaforma di streaming per vedere le sfilate senza parlare dei social. La moda ha sempre vissuto di questo potentissimo messaggio».