La Stampa, 11 gennaio 2025
Intervista a Umberto Allemandi del Giornale dell’Arte
Per 42 anni ha diretto Il Giornale dell’Arte da lui fondato e appena ceduto a Intesa Sanpaolo, Compagnia di Sanpaolo e Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo. Umberto Allemandi, 87 anni, torinese, fa scorrere un Velázquez sulla libreria piena di cataloghi di mostre, in gran parte editi da lui, e da dietro la tela estrae whisky giapponese e cremini di Gobino. «Mia moglie è una storica dell’arte di origine inglese e la sua bisnonna realizzò le copie dei quadri del Prado. Questa figura equestre è l’unico rimastoci e tutti gli esperti che passano di qui ne confermano la fedeltà all’originale», spiega mentre ci sediamo nel suo salotto affacciato sul Santuario della Consolata nel Quadrilatero di Torino.Come inizia la sua storia?«Mia madre mi ha insegnato che non è bello parlare di sé, anche perché è meglio conoscere gli altri, cosa che da giornalista ho fatto a lungo. Finito il liceo classico divenni il primo copywriter d’Italia all’Armando Testa per pagarmi l’università. Con il grande pubblicitario andavamo a cinema e a teatro. Inventai slogan per Lavazza come “Amigos, che profumo”, anche se il caffè era brasiliano e non spagnolo, o per Simmenthal a cui proposi “I piaceri della carne”, che piacque ma non passò. Prima collaborai alla rivista Il dramma di Lucio Ridenti, attore arbiter elegantiarum che commissionava le copertine agli artisti».Si appassionò ai giornali?«Già a 5 anni feci il primo giornalino di cui vendevo il diritto di lettura alle amiche di mia mamma ad Asti, dove eravamo sfollati per i bombardamenti a Torino. Anche all’oratorio ideavo giornalini con Umberto Eco e Gianni Vattimo. Da adulto Alberto Bolaffi inventò il primo catalogo d’arte moderna e mi affidò la rivista Bolaffi Arte. Tirava 5mila copie dalle copertine firmate una per una da Dalì, Rauschenbrg, De Chirico, Mirò… Lì nacque l’idea dell’attualità, la differenza tra rivista e giornale».E come nacque Il Giornale dell’Arte?«Decisi di fondarlo nel 1983, dopo una serie di offerte lusinghiere da Rizzoli e Mondadori, che rilevò la parte non filatelica di Bolaffi. Disegnai tutte le pagine in una notte. Lo offrii a Giorgio Mondadori, ma aveva già Bolaffi Arte. Allora fondai la mia casa editrice con l’aiuto di alcuni finanziatori tra cui Calisto Tanzi, Johnny Eskenazi, Armando Testa e Gianluigi Gabetti. Quest’ultimo mi propose l’aiuto della Fiat, ma il mio progetto era troppo piccolo: partivo dalla liquidazione, però da buon piemontese sono un mulo e quando invento qualcosa lo porto avanti».Qual era il suo progetto?«L’idea iniziale era di fare un giornale, perfettamente equivalente a La Stampa o Le Monde, ma che selezionasse notizie solo di arte di tutto il mondo, verificando le informazioni e tenendo separata la pubblicità. Un giornale serio in un ambiente terribilmente ambiguo, a partire dai valori dell’arte. Per 42 anni è uscito ogni mese, a luglio e agosto con un numero unico. Una grande idea su cui sono di fatto inciampato».Tra i primi collaboratori c’era il critico Federico Zeri...«Fu un maestro di pensiero. Lo conoscevo grazie alle esperienze precedenti e lui mi seguì con attenzione presentandomi i direttori dei grandi musei. Fu una figura di grande influenza sull’arte, ma anche sulla politica. Ricordo il suo occhio straordinario nel riconoscere e valutare ogni opera. Fu tra i più importanti esponenti della Fondazione Getty, che lasciò perché poco seria».Quali artisti ricorda?«Il più umano è Salvador Dalì, con cui ho passato tanto tempo in Spagna mentre dipingeva. Una volta mi chiamò per avvisarmi che sua moglie Gala passava da Torino e voleva vedere “i mostri”. Capii che si riferiva al Cottolengo e dovetti spiegargli che la sua curiosità non era adatta a quel luogo. Giorgio De Chirico mi invitava spesso a casa sua a Roma, a patto che gli portassi dei grandi pacchi di grissini. Massimo Campigli mi spediva lettere piene di disegnini. Ottimi rapporti pure con il movimento dell’Arte povera torinese, da Michelangelo Pistoletto a Giulio Paolini. A Torino ho passato intere giornate anche con Andy Warhol, che fece un ritratto a Marina Ferrero Ventimiglia, all’Avvocato Agnelli e a Brassai».Qual è la sua arte preferita?«Non sono uno storico né un critico e mi sono sempre guardato dalle invasioni di campo. Da giornalista con 68 anni di attività però ho maturato una certa severità di giudizio sul mondo dell’arte sia come sistema sia come opere. Noto una sopravvalutazione del suo significato: per tante altezze sublimi, che regalano intensità e gioia, ci sono altrettante nullità. Inoltre l’arte non è una religione né un passatempo da weekend. Poi in molti si dicono artisti e non lo sono».Il mondo dell’arte si prende troppo sul serio?«Certo, io ho visto tutto e il contrario di tutto e di eccellenze ne ho conosciute poche».I suoi gusti personali?«Rubens o Velázquez».Come ha visto cambiare il sistema dell’arte?«Il collezionismo ha sempre considerato i possibili vantaggi economici dei propri acquisti, ma se pensiamo a Gualino o a Vitali non compravano per ragioni solo finanziarie: capivano il valore attraverso il gusto. Oggi vedo acquistare trenta quadri al telefono. E c’è un indice di notorietà dell’artista, a cui si lega il valore della sua opera, che prevale in modo devastante sulla sua qualità. Il mercato ha prevalso sulla cultura, ma i veri collezionisti non conoscono la preziosità dei quadri che possiedono».Torino che ruolo ha nel sistema dell’arte?«È sempre stata importante proprio per la presenza di tanti collezionisti e capitali. Questo ha contribuito a darle una fisionomia diversa da quella solo industriale. Anche oggi la settimana dell’arte è quella più caratterizzante. Pur non essendo Venezia, Firenze o Roma, è una bellissima città che attrae artisti e intelligenze. Il Castello di Rivoli in questo senso ha un ruolo fondamentale, così come la fiera Artissima».Perché ha venduto tutto?«Il giornale è sempre stato in attivo, anche se di poco. Ero stanco però del lavoro necessario per finanziarlo e della responsabilità di chi lavora con me. Non essendo ricco, anche perché non ho mai chiesto opere agli artisti, ho pensato che era il momento di assicurare un futuro solido alla casa editrice».Perché ha scelto banche e fondazioni bancarie?«Una combinazione di azionisti di forza economica, serietà e interesse per l’arte così è difficile da trovare. Tra l’altro io ho sempre pensato alla casa editrice come a una specie di fondazione. Ho avuto offerte perfino dai cinesi, ma ho preferito Torino».Perché non è diventato un collezionista?«All’inizio ci ho provato, poi ho capito che non avrei mai potuto comprare opere belle come quelle dei musei e ho lasciato perdere. Preferisco una copia, ma di Velázquez».