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 2025  gennaio 11 Sabato calendario

Dolce e Gabbana in mostra al Grand Palais di Parigi

Lo scorso aprile, nel Palazzo Reale di Milano, ha aperto Dal cuore alle mani, la mostra con cui Domenico Dolce e Stefano Gabbana hanno raccontato i primi dieci anni delle loro collezioni d’alta moda, alta sartoria e alta gioielleria. Un esperimento portato avanti, dicono oggi, con una certa ingenuità e con il timore che l’iniziativa si sarebbe rivelata un fallimento visto che in Italia, purtroppo, le mostre di moda non sono frequenti. E invece, con le sue sale tematiche, i decori fastosi, il focus sull’artigianato e, ovviamente, gli splendidi abiti, l’esposizione è diventata il caso del 2024: biglietti sold-out, code all’entrata e migliaia di post social entusiasti. Una risposta del tutto inattesa per i due stilisti, che si sono trovati in una situazione di analoga incredulità quando sono stati invitati a portare la mostra a Parigi.Tanto più che Du coeur à la main, inaugurata ieri e visitabile fino al 31 marzo, è la prima mostra di moda italiana a essere ospitata al Grand Palais, uno dei simboli della capitale francese. «Innanzi tutto, siamo ancora emozionati per il successo di Milano. Sapevamo di stare facendo qualcosa di speciale per noi, ma non ci aspettavamo che il pubblico l’accogliesse così. Sognavamo di portare l’esposizione in diverse città, ma pensavamo di iniziare da New York; poi però il presidente del Grand Palais Didier Fusilier l’ha visitata, e ci ha subito invitato», spiegano i due giovedì sera poco prima dell’inaugurazione con Monica Bellucci, Fanny Ardant e Juliette Binoche tra gli invitati. «Non ci interessano le celebrazioni fini a se stesse, le glorificazioni vuote, i premi dati a chi paga. Non abbiamo nemmeno festeggiato i quarant’anni del marchio nel 2024, perché ci pareva un insistere sterile sul passato. Ma, da italiani, sappiamo bene cosa voglia dire essere qui, e ne siamo orgogliosi. Non si tratta di incensarsi, ma di dare il giusto peso alle cose». Pur ammettendo di non essere mai stati molto interessati a sfilare a Parigi, non hanno remore a riconoscere il ruolo della moda francese nella loro formazione. «Dior, Balenciaga, Saint Laurent: i nostri riferimenti sono sempre state le grandi maison parigine. E quando ci siamo messi in proprio è a Coco Chanel che abbiamo guardato, a come ha costruito il suo universo. Quindi in un certo senso siamo molto francesi. E alla fine a Parigi ci siamo arrivati. Ma a modo nostro».I temi e gli abiti esposti sono gli stessi della mostra di Milano: i mosaici bizantini, il fatto a mano con i vestiti circondati dai dipinti di Anh Duong, la sartoria, l’opera lirica, la Madonnina del Duomo. A essere modificati sono la planimetria e, in alcuni casi, l’approccio narrativo. «A Milano il percorso era su un solo piano, qui su tre: un bell’esercizio ripensare allo spazio e a come sviluppare il racconto su vari piani. Inoltre il museo ci ha chiesto di contestualizzare certi argomenti: per esempio il folk, con la sala del carretto siciliano introdotta dalle foto in bianco e nero scattate alle processioni religiose in Sicilia. Al Grand Palais interessava dare il più possibile risalto alla cultura e al savoir-faire italiani e, visto che il pubblico locale certe cose magari non le conosce, era necessario illustrarle in modo diverso. Noi non ci avremmo mai pensato, ma ci rende orgogliosi che questo sia l’obiettivo finale. Noi siamo qui come portavoce degli artigiani che, dalla Liguria alla Puglia, ci hanno permesso di creare questi pezzi. Siamo un po’ come emigranti con la valigia. O meglio, come ospiti che arrivano in punta di piedi, fanno il loro e se ne tornano a casa».Ma c’è anche un altro aspetto che per i due è fondamentale: il poter raccontare la loro storia da sé, come sentono sia giusto. «Esposizioni del genere di solito sono organizzate dopo la scomparsa di un creativo, perciò a essere esposta è la visione di un curatore “esterno”. Invece noi abbiamo la fortuna di decidere in prima persona cosa dire e come farlo, senza filtri. Quando non ci saremo più la nostra storia sarà trasmessa in maniera diversa, ma per ora parliamo noi. Magari non a tutti piacerà il nostro messaggio: va bene così. Sennò saremmo in un regime». Proprio in virtù di questa coerenza, rifiutano con forza l’idea che l’iniziativa possa essere vista anche come una strategia promozionale. «Non è marketing, non lo è mai stato. La volontà di celebrare l’Italia fa parte del nostro dna dal principio: da prima ancora che sapessimo definire il sentimento, quando eravamo circondati da scettici che non credevano in ciò che facevamo. È il nostro modo di esprimere l’amore per queste arti, e per chi le porta avanti. L’amore si fa coi fatti, non con le parole».Un principio che loro applicano con rigore: Dolce ha passato l’Epifania chiuso nel Grand Palais, sistemando i manichini uno a uno. «Questo è amore, altro che marketing».