la Repubblica, 11 gennaio 2025
Reportage da Teheran
C’è un volto che continua a imporsi nelle funeree gigantografie che incombono sulle piazze e sui viali di Teheran: quello del generale Qassem Soleimani, l’artefice dell’asse della resistenza contro il Grande Satana, assassinato nel 2020 da un missile americano, “martire vivente” assurto nell’empireo della Rivoluzione accanto all’imam Khomeini e alla Guida suprema Ali Khamenei. Ma la retorica nazionalista non serve a nascondere i fallimenti della teocrazia iraniana. In pochi mesi il fronte della Mezzaluna sciita si è sgretolato. Il principale alleato degli ayatollah, la Siria di Bashar Assad, è oggi nelle mani della Turchia e delle milizie sunnite di Al Jolani. Israele, dopo avere decimato Hamas a Gaza, ha decapitato la dirigenza dell’Hezbollah libanese e tiene sotto tiro gli Houthi dello Yemen.È in questo quadro che il rilascio di Cecilia Sala dopo ventun giorni passati nel carcere di Evin assume un significato politico per il regime degli ayatollah, che attraversa il periodo di massima debolezza e isolamento dalla nascita della Repubblica islamica nel 1979 e dai tempi della sanguinosa guerra con l’Iraq di Saddam negli anni Ottanta: un gesto distensivo nei confronti dell’Italia e dell’Europa alla vigilia dei colloqui sul dossier nucleare e sulle sanzioni, lunedì 13 gennaio a Ginevra, con Francia, Germania e Gran Bretagna, a pochi giorni dall’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca.A Teheran, nell’anno 1403 del calendario persiano, si respira un’aria pesante. La crisi economica ha raggiunto livelli di guardia e lo scollamento tra la società civile e il regime clericale è ormai incolmabile. «Il governo – dice Mohamed, 30 anni, ingegnere meccanico che per campare fa il tassista abusivo – ha sperperato miliardi di dollari in spese militari mentre noi siamo alla fame». L’impoverimento della classe media è palpabile: i prezzi dei beni di consumo non sovvenzionati sono fuori portata per molti iraniani. Un etto di carne costa più di un pieno di benzina. La moneta locale è in caduta libera: al mercato nero i cambiavalute, armati di calcolatrici e valigie zeppe di banconote, aggiornano di ora in ora il tasso del dollaro, che è raddoppiato in due anni e oggi supera gli 820.000 rial. Era 32.000 nel 2015, quando fu siglato l’accordo sul nucleare.Con l’inverno, che ha imbiancato di neve le montagne a nord della capitale, i consumi energetici crescono ma l’Iran, secondo Paese al mondo per riserve di gas, fatica a soddisfare il fabbisogno e si vede costretto a razionare l’erogazione di energia elettrica nelle città e nelle fabbriche. Scuole, banche, industrie e uffici pubblici subiscono improvvisi blackout e chiusure programmate.Al Gran bazar, motore e termometro del commercio, molti esercizi hanno abbassato le saracinesche. Con le sanzioni, le transazioni bancarie con l’estero sono impossibili e quasi tutto ciò che è in vendita è di fabbricazione cinese: elettrodomestici, cosmetici, computer, pezzi di ricambio, tessuti. I turisti sono spariti, le agenzie di viaggi chiudono e il bazar dei tappeti, un tempo florido e affollato, è semivuoto. «Possono passare settimane senza vedere l’ombra di un cliente», lamenta Reza Ghaderi, che per restare a galla ricorre ad altre attività nell’economia informale. Quasi tutti a Teheran fanno un doppio o un triplo lavoro. Chi può, per proteggere i risparmi investe in valute virtuali. Come Navhad, che nel suo negozio di scarpe tiene d’occhio l’andamento dei bitcoin sul cellulare.L’80 per cento degli 85 milioni di iraniani è nato dopo la Rivoluzione e il 40 per cento ha meno di 25 anni. Sono soprattutto i giovani (il tasso di disoccupazione giovanile sfiora il 60 per cento) a subire i contraccolpi della crisi. Gli affitti sono raddoppiati, sposarsi e fare figli è un lusso che non possono permettersi: è sempre più difficile avere vent’anni in Iran. «Non c’è futuro per noi in questo Paese – dice Mehdi, laureato in informatica, che sogna di andare in America o in Europa e nel weekend si trova con gli amici e la fidanzata sulle colline di Darband –. Non abbiamo alcuna fiducia in questo Stato, corrotto e repressivo. Nemmeno nei cosiddetti riformisti: sono solo l’altra faccia del regime». Anche il movimento di protesta innescato dalla morte di Mahsa Amini, duramente represso nel sangue nel 2022, sembra essersi esaurito in una palude di sconforto, di frustrazione, di rabbia e di speranze deluse.A protestare sono oggi gli impiegati, gli operai, gli insegnanti che con salari che non arrivano a 200 euro al mese non riescono più a mantenere la famiglia, mentre il divario sociale si allarga a dismisura. Risalendo Vali Asr, il viale del Maestro del Tempo, l’arteria che collega le aree popolari di Teheran (15 milioni di abitanti) alle lussuose residenze dei vecchi e nuovi ricchi alle pendici dei monti Elburz, saltano agli occhi le stridenti contraddizioni della società iraniana. Dagli squallidi condomini degli immigrati afghani, dai giardinetti dove i tossici accendono fuochi di carta per riscaldarsi, dalle congestionate e inquinate periferie del sud, si sale a Shemiran, Farmanieh, Niavaran: i quartieri dell’alta borghesia e della nomenklatura, dove circolano Porsche e Maserati, le boutique vendono capi italiani firmati e nei supermercati si trovano prodotti europei importati di contrabbando da Dubai.Su tutto e su tutti vigilano gli occhi del regime. Una volta erano i basiji, le milizie paramilitari, a esercitare il controllo sociale. Ora non si azzardano più a minacciare e imprigionare le ragazze che sempre più numerose si rifiutano di indossare il velo, a fare irruzione nelle case o nei caffè per imporre il rispetto della morale islamica. Al loro posto ci sono migliaia di telecamere, gli espedienti della tecnologia digitale e i filtrisui social. Ma la metamorfosi sociale di cui le donne iraniane sono state negli anni protagoniste, pagandone un prezzo altissimo, è ormai inarrestabile.La legge “sull’hijab e la castità” proposta dagli ultraconservatori è stata bloccata dal presidente riformista Massoud Pezeshkian. «È stata solo rinviata» – sostiene l’hojatoleslam di Qom, Mahdi Farmanian –. È necessaria per stabilire pene certe ed evitare gli abusi dei giudici». In realtà, come dice a Repubblica Zakiyyeh Yazdanshenas, responsabile per il Medio Oriente del Centro studi strategici di Teheran, «il governo ha ritenuto che quella legge non è applicabile nelle attuali circostanze perché rappresenterebbe una minaccia alla sicurezza nazionale». Tradotto: scatenerebbe una rivolta popolare dalle conseguenze imprevedibili.Questo non significa però che il regime sia vicino al collasso. Almeno fino a quando l’ottanta-cinquenne Rahbar Enghelab, la Guida della Rivoluzione, potrà contare sull’appoggio incondizionato delle forze armate, che controllano l’arsenale bellico, gran parte dell’economia del Paese e gli impianti nucleari. «Se saremo attaccati da Israele – dice il generale Hossein Kanani Moghaddam, fondatore ed ex comandante dei Pasdaran, veterano della guerra contro l’Iraq e addestratore delle milizie filoiraniane in Afghanistan, in Libano e in Siria – sapremo come rispondere. Disponiamo di sistemi d’arma avanzati che non mostriamo nelle manovre militari. E in pochi giorni – aggiunge minaccioso – siamo ormai in grado di utilizzare anche testate nucleari tattiche».