Avvenire, 9 gennaio 2025
4 euro l’ora per lavorare come maschere a teatro
Retribuzioni considerate sotto la soglia di povertà, che oscillano tra i quattro, cinque, sei euro netti l’ora. Stipendi molto bassi che non garantiscono condizioni di vita dignitose: sono quelli che percepiscono i lavoratori di molte cooperative attive nei musei, nei teatri, fondazioni. Custodi e maschere spesso in possesso di titoli di studio qualificati (lauree, master, conoscenza di una o più lingue straniere) ma che evidentemente non bastano nel mercato del lavoro di oggi. Una situazione complicata che ha provocato anche proteste pubbliche: il primo dicembre scorso, ad esempio, alcuni lavoratori dei musei civici milanesi si sono incatenati nell’atrio del museo del Novecento, in segno di protesta contro «gli stipendi da fame» che percepiscono. È di martedì la notizia che la Procura di Milano ha disposto il controllo giudiziario in via d’urgenza con la nomina di un amministratore giudiziario a Fema, una delle società cooperative che forniscono personale per eventi e servizi museali, dopo le denunce di alcuni dipendenti, per arrivare alla regolarizzazione dei rapporti di lavoro. I committenti sono tra i più importanti enti culturali a livello internazionale, come le fondazioni del Piccolo Teatro e del Teatro alla Scala, tanto per citarne due, e sono tutti estranei all’indagine. È uno schema già visto in altri ambiti: dalla logistica alla moda, al settore della vigilanza privata. Ma la piaga dello sfruttamento, evidentemente, è diffusa anche tra il personale di musei, teatri e spettacoli dal vivo.
Chi segue da tempo queste vicende, comunque, non è stupito dal sistema che prevede di esternalizzare il lavoro con cifre al ribasso. È quello che ci raccontano gli attivisti dell’associazione “Mi Riconosci? Sono un professionista dei beni culturali”, nata dieci anni fa su iniziativa di un gruppo di studenti e giovani professionisti legati all’organizzazione studentesca Link-Coordinamento Universitario. Per l’associazione è «un’ottima notizia che la procura di Milano stia iniziando a intervenire sulle cooperative che forniscono personale a teatri e musei. Come denunciamo da un decennio, il settore è un coacervo di sfruttamento basato sugli appalti al ribasso: non a caso, tra le cooperative coinvolte nell’indagine, se ne contano alcune che hanno vinto appalti comunali o statali in musei, teatri e spazi espositivi di livello nazionale». Ma tutto questo non basta. «Serve un’azione politica. I committenti possono non essere coinvolti a livello giudiziario, ma a livello politico e morale lo sono: non possono dire di non sapere. Sono loro che scrivono i bandi e affidano i servizi, perciò sono responsabili dello sfruttamento, tanto quanto le aziende. Vivere con 5, ma anche 6, 7, 8 euro lordi in una grande città è impossibile: ma molti appalti continuano a prevederlo».
Come racconta Valentina Colagrossi, archeologa e attivista dell’associazione, proprio una dipendente di una delle cooperative finite nel mirino della procura milanese si era già rivolta all’associazione: due anni fa aveva scritto dicendo di lavorare come maschera in un teatro, ma non era stata contrattualizzata. «Nei fatti si trattava di un lavoro dipendente con turni e orari stabiliti dalla coop, ma era formalmente inquadrato in ritenuta d’acconto. E le paghe orarie si aggiravano sui 7-8 euro lordi l’ora».
E nel provvedimento del pm di Milano Paolo Storari vengono riportate testimonianze analoghe di lavoratori ai quali non sarebbe stata garantita «un’esistenza libera e dignitosa» con paghe anche più basse, da meno di 5 euro l’ora: una dipendente ha fatto mettere a verbale che la sua retribuzione attuale non le bastava per vivere, dato che percepiva al mese circa 600 euro netti: «non riesco a capire come sia possibile che uno Stato accetti che una retribuzione sia così bassa», si legge. Molti altri lavoratori hanno raccontato di andare avanti solo grazie all’aiuto dei familiari. C’è chi ha dichiarato di dover svolgere contemporaneamente altri impieghi; e non mancano le testimonianze di chi, per problemi legati all’età, ha riferito di non avere molte alternative lavorative. Il pm ha parlato di una «situazione di illegalità» ai danni di «lavoratori in stato di bisogno».
Il problema tuttavia è alla base, denuncia Colagrossi. «Lo definirei un problema sistemico su cui si basa la gestione del sistema degli appalti e delle concessioni – spiega –. C’è una stazione appaltante, che è la Pubblica amministrazione che pubblica bandi dove quasi mai si tiene conto del costo del personale, e dove gli stipendi sono al ribasso». E cita come esempio il caso del parco archeologico della Val Camonica in cui veniva applicato il “Safi” (Servizi ausiliari fiduciari e integrati), «un tipo di contratto dove rientra tutto quello che riguarda la sorveglia non armata, ma che nel 2022 è stato “dimesso”. Ovvero è stato formalmente “eliminato” dalla Uil, il sindacato che lo aveva sottoscritto all’epoca». Dal primo giugno scorso è stato invece applicato il contratto dei Servizi fiduciari di livello D «che con l’ultimo rinnovo è salito a circa 6.60 euro lordi l’ora. Il rinnovo precedente risaliva ad otto anni fa...» Qualcosa però si sta muovendo. Il Comune di Milano fa sapere che si è impegnato, al termine degli appalti in corso, a modificare le condizioni di gara per i servizi museali: l’obiettivo è di fare applicare il contratto collettivo nazionale Federculture, ritenuto quello con maggiori tutele per gli addetti. Ad esempio, nell’avviso di gara per i servizi di biglietteria, l’amministrazione meneghina, oltre a individuare le risorse economiche necessarie e a prevedere nel bando il contratto Federculture, potrà – grazie anche al nuovo codice degli appalti – imporre alle società che dovessero preferire un altro contratto, le stesse tutele del Federculture.